The Project Gutenberg EBook of Poesie inedite vol. I, by Silvio Pellico This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: Poesie inedite vol. I Author: Silvio Pellico Release Date: October 1, 2006 [EBook #19429] Language: Italian Character set encoding: ISO-8859-1 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK POESIE INEDITE VOL. I *** Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothčque nationale de France (BnF/Gallica) at http://gallica.bnf.fr) POESIE INEDITE DI SILVIO PELLICO. L'Autore intende di godere del privilegio conceduto dalle Regie Patenti del 28 febbrajo 1826, avendo egli adempito quanto esse prescrivono. POESIE INEDITE DI SILVIO PELLICO VOLUME PRIMO. TORINO TIPOGRAFIA CHIRIO E MINA. MDCCCXXXVII. AI LETTORI. Avendo alquanto coltivato la poesia sin da' giovenili anni, e trattone dolcezza, non so cessare d'amarla, e di lasciarmi talvolta da essa ispirare scrivendo i miei pių intimi pensieri e sentimenti. Cosė son nati i versi che oggi m'avventuro di pubblicare, sebbene sia consapevole essere in questi il buon desiderio molto maggiore del merito, e sebbene soglia dirsi nell'etā nostra, giovare che gli scrittori italiani gareggiano piuttosto in moltiplicare le buone prose, che in arricchire il tesoro della poesia patria, giā cotanto abbondante ed egregio. Non condanno siffatta opinione a favore delle buone prose, le quali pur vorrei vedere aumentarsi ogni giorno nella nostra letteratura, ma dimando grazia anche per le poetiche produzioni. Se svolgono affetti lodevoli e veritā religiose e civili, le impressioni che fanno su gli animi possono riuscire benefiche al pari d'impressioni destate da libri morali d'altro genere. Non poca parte de' versi che do alla luce si riferisce precipuamente alle mie vicende, a' miei dolori, alle mie speranze, alle consolazioni recatemi dalla Fede. Mi sono chiesto se non era temeritā il dipingere sė lungamente me stesso, e forse ell'č temeritā infatti. M'č nondimeno sembrato che la pittura del mio cuore acquistasse un rilievo dagli oggetti nobilissimi che v'ho associato, e segnatamente dal pių sublime di tutti--Iddio. Sospetto che avrei fatto meglio a parlare di Lui, di Religione, di Virtų, senza tanto a me medesimo por mente, ma non ho saputo. Il benigno lettore gradirā con indulgenza questa confessione: ho argomento di sperarlo, sapendo che altra volta giā m'č stato generalmente perdonato il rappresentare con tutta fiducia l'interno dell'anima mia. AL MARCHESE TANCREDI FALLETTI DI BAROLO ED ALLA MARCHESA GIULIETTA NATA COLBERT SUA CONSORTE OMAGGIO DELL'AUTORE. LA MIA GIOVENTŲ. Cor mundum crea in me, Deus. (_Ps_. 50). Lamento sui fuggiti anni primieri, Che fecondi di speme Iddio mi dava, E di ricchi d'amore alti pensieri! Tra giubili ed affanni io m'agitava, Ed incessanti studi, e bramosia Di sollevarmi dalla turba ignava; E spesso dentro al cor parola udėa Che diceami dell'uom sublimi cose, Tali che d'esser uomo insuperbėa. Pupille aver credea sė generose Il mio intelletto, che dovesser tutte Schiudersi a lui le veritā nascose; E di ragion nelle pių forti lutte Io mi scagliava indomito; sognante Che sempre indagin lumi eccelsi frutte. Quella vita arditissima ed amante Di scïenza e di gloria e di giustizia Alzarmi imprometteva a gioie sante. Nč sol fremeva dell'altrui nequizia, Ma quando reo me stesso io discopriva, L'ore mi s'avvolgean d'onta e mestizia. Poi dal perturbamento io risalíva A proposti elevati ed a preghiere, Me concitando a caritā pių viva. Perocchč m'avvedea ch'uom possedere Stima non puō di se medesmo e pace, S'ei non calca del Bel le vie sincere. Ma allor che fulger pių parea la face Di mia virtų, vi si mescea repente D'innato orgoglio il lucicar fallace. E allor Dio si scostava da mia mente, E a gravi rischi mi traea baldanza, Ed infelice er'io novellamente. Se cosė vissi in lunga titubanza, Ond'or vergogno, ah! tu pur sai, mio Dio, Che tremenda cingeami ostil possanza! Sfavillante d'ingegno il secol mio, Ma da irreligiose ire insanito, Parlava audace, ed ascoltaval'io. E perocchč tra' suoi sofismi ordito Pur tralucea qualche pregevol lampo, Spesso da quelli io mi sentėa irretito. Egli imprecando ogni maligno inciampo Sciogliea della ragion laudi stupende, Ma insiem menava di bestemmie vampo. Ed io, come colui che intento pende Da labbra eloquentissime e divine, E ogni lor detto all'alma gli s'apprende, Meditando del secol le dottrine, Inclinava i miei sensi alcuna volta Di servil riverenza entro il confine. Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta Era sua sapïenza, e vidi tardi Ch'ei debaccava per superbia stolta. Trasvolaron frattanto i dė gagliardi Della mia giovinezza, e sovra mille Splendide larve io posto avea gli sguardi; E nulla oprai che d'alta luce brille! E si sprecar fra inani desidčri Dell'alma mia bollente le faville! Lamento sui fuggiti anni primieri Che d'eccelse speranze ebbi fecondi, E di ricchi d'amore alti pensieri! Ma sien grazie al Signor che, ne' profondi Delirii miei, pur non sorrisi io mai Agl'inimici suoi pių furibondi: Sempre attraverso tutte nebbie, i rai Del Vangel mi venian racconsolando; Sempre la Croce occultamente amai. Ed il maggior mio gaudio era allorquando In una chiesa io stava, i dė beati Di mia credente infanzia rammentando: Que' dė pieni di fede, in che insegnati Dal caro mi venian labbro materno I portenti onde al ciel siamo appellati! Di nuovo fean di me poscia governo La incostanza, gli esempi, ed il timore Dell'altrui vile e tracotante scherno; E l'ira tua mertai per tanto errore: Ma gl'indelebili anni che passaro Ritesser non m'č dato, o mio Signore! Presentarti non posso altro riparo Che duolo e preci e fč nel divo sangue, Di cui non fosti sulla terra avaro Per chiunque a' tuoi pič pentito langue. A DIO. Et anima mea illi vivet. (_Ps_ 21). D'uopo ho d'amarti, e d'uopo ho che tu m'ami, O tu che per amar mi desti un cuore! Son mal fermi quaggių tutti i legami, Tu sei solo immutabile, o Signore! S'amo creati cuor, fa ch'io rïami In essi te che mi comandi amore: Se d'altri il braccio mi sostiene alquanto, Sostenga essi con me tuo braccio santo. Ov'anco intorno a me sien petti cari, No, mai bastar non ponno al mio conforto; Spesso agitato da cordogli amari Lo sguardo mio sui lor sembianti io porto; Ma del mio mal tosto li bramo ignari, E compongo a letizia il viso smorto, E so che anch'essi per affetto eguale Celan sovente del dolor lo strale. E pių volte ho provato in petti umani D'espandere l'arcana angoscia mia, E come a Giobbe i consiglier suoi vani, In me quelli accrescean melanconia; E chi i gemiti miei diceva insani, Chi crollava la testa e non capėa, Chi fingea compatir, mentre in secreto Io lo scorgea de' miei tormenti lieto. Sė ch'or per la pietā che agli uni io deggio, Perchč tenera brama han del mio bene, Ora per non esportili al vil dileggio Dell'alme giubilanti alle mie pene, Poco agli uomini parlo, e poco alleggio Tra loro il duol che in me dominio tiene; Ma sfogar pur sospiro i lutti miei, E tu, Signor, mio confidente sei! Fa ch'io ti senta sempre a me vicino: Troppo la solitudin m'addolora! Posar vo' il cor sovra il tuo cor divino Voglio dirti i miei sensi a ciascun'ora! Traggimi in qual pur sia fiero cammino, Purchč teco io respiri, e teco io mora: Tutti i dolori a te d'accanto accetto, Di viverti discaro io sol rigetto. Per aver l'amor tuo che far degg'io? Pregar soltanto? Ah no, il pregar non basta! Debbo immagine in terra esser di Dio, Debbo luttar contro a natura guasta, Debbo aver di giustizia alto desėo, Debbo non abborrir chi mi contrasta, Debbo amar tutti, anco i pių rei nemici, Ed, ove il possa, oprar che sien felici. Donami quell'amor, ma il dona insieme A chi meco vïaggia sulla terra: Fra gl'inamanti cuori il cuor mio geme E impicciolisce, e sua virtų s'atterra; Fra i malignanti cuori il cuor mio freme, E orgoglio oppone a orgoglio, e guerra a guerra Fra gli odii altrui l'anima mia č infeconda; D'alti esempi d'amor, deh, la circonda! Con te, Signor, con te stringo alleanza: Perdonerō a' mortali, a me perdona; Amerō tutti, perchč han tua sembianza, Perch'io son tua fattura, amor mi dona; Amerō tutti, ma con pių esultanza Chi fra le braccia tue pių s'abbandona; Amerō tutti, ma con pių fervore Chi pių simile al tuo mi mostra il core! Amar vogl'io, di quell'amor che avvampa In te, e ne' tuoi pių nobili viventi, Di quell'amor che da' rei lacci scampa, Di quell'amor che regge infra i tormenti, Di quell'amor che all'universo č lampa Nella chiesa infallibil de' redenti, Di quell'amor sė pio, sė ver, sė forte, Che abbella e vita, e gioie, e strazi, e morte! DIO AMORE. Domine, qui amas animas. (_Sap_. 11,27.) Amo, e sovra il cor mio palpitō il core Del mio Diletto, ed era--ah! la tremante Lingua osa dirlo appena--era il Signore! Il Signor che di gloria sfavillante Regna ne' cieli, e sua delizia č pure Il picciol uomo in questa valle errante! Ed attonite il mirano le pure Intelligenze scendere ammantato A questo erede di colpe e sciagure, Ed il povero verme lacerato Sanar colle sue mani, e a tutti i mondi Ridir sua gioia, se da tale č amato. Io lo vidi per baratri profondi Movermi incontro, e gridar dolcemente: ŦPerchč cotanto al mio desėo t'ascondi?ŧ E pių e pių appressavasi, e ridente Pių e pių del suo viso era il fulgore, E n'arsi ed arderonne eternamente. Amo, e sovra il cor mio palpitō il core Del mio Diletto, ed era--ah sė! il proclamo All'universo in faccia--era il Signore! Io lo vidi, il conobbi, ei m'ama, io l'amo! MARIA. Fac ut ardeat cor meum. (_Stab_.) Amo, e sovra il cor mio col nome santo Sta del Signor quel d'una Donna impresso Quel della Vergin che a Lui siede accanto! Quel di Colei che gloria č del suo sesso! Quel di Colei ch'anima avea sė bella, Ch'a sue cure Dio volle esser commesso! E bambin s'appendeva a sua mammella, Ed ha i merti di lei co' suoi contesti, E l'alzō dov'č a noi propizia stella! Salve, o Maria! Tu con Gesų stringesti Fra le tue braccia tutti noi mortali; Tu per fratello il Redentor ne desti. Su me pur, su me pur tue celestiali Pupille scintillaron di materna Pietā ineffabil, sin da' miei natali. E a quel Figliuol che terra e ciel governa Per me chiedesti e vai chiedendo aïta, Sė, ch'io pur giunga alla sua pace eterna. Ne' giorni pių infelici di mia vita L'invisibil tua man mi terse il pianto; Ognor t'han miei rimorsi impietosita. Amo, e sovra il cor mio porto col santo Nome di Dio quel di Maria stampato! Quel della Donna che a Lui siede accanto! Della Madre che il Figlio ha per me dato! L'UOMO. Omia possum in eo qui me confortat. (_Philipp_. 4, 13) Capir non puō l'umano spirto quale Fosse dell'uom la prima, alta natura, Pria che i suoi giorni avvelenasse il male. Ma di natia grandezza un resto dura Pur d'Adam nel nipote sventurato, Che un Dio, piucchč una belva, in sč affigura. Quel corrucciarsi del suo abbietto stato Č ad un tempo alterigia e sentimento Ch'ei pel fango terren non fu creato. Giocondo del suo pascolo č l'armento, E se rugge il leon, rugge per fame, E quand'č sazio, anch'ei posa contento. Solo il mortal, benchč ogni senso sbrame, E si sforzi a letizia, ode una voce Che in cor gli grida:--L'ore tue son grame! Sempre muta pensier, sempre lo cuoce Uopo sfrenato di scïenza o possa, Sempre una spina a sue calcagna nuoce. Solo fra gli animali ei pur dall'ossa De' cari estinti aspetta vita, e crede Sovrastar gioie e danni oltre alla fossa. In ogni secol l'uom si vanta erede D'avito senno e cresciutissime arti, Ed egualmente sitibondo incede. Ambisce ragunar tutti i cosparti Lumi dell'universo, e farsi Iddio, E rifuggongli quei da cento parti. Agogna fama, e lo ravvolge obblio, Sanitā cerca, e infermitā l'abbatte, Sa di peccare, e vorrebb'esser pio. Contr'altri, contra sč freme e combatte, Vuol parer dignitoso ed assennato, E il premon fantasie luride e matte. Egli č un astro smarrito ed oscurato Che di sua prisca gloria un raggio serba, E volge a rallumarsi ogni conato. Egli č una cosa angelica e superba, Egli č un Nabucodonosor del cielo, Dannato co' giumenti a pascer l'erba. Sull'intelletto suo s'č steso un velo, Ch'ei maledice ed agita, e attraverso Scorge il tesor perduto ond'č sė anelo. Come offes'egli il Re dell'universo? Qual fu l'arbor vietata ch'egli ha tocca? Sin quando in mezzo a' vermi andrā disperso? Basti che mentre di giustizia scocca L'ineluttabil folgore sull'uomo, Sull'uom misericordia anco trabocca. Basti che sė da colpa ei non č domo, Che per mano di Dio non debba pure Frangere il giogo, e avere in ciel rinomo. Basti ch'ei fra ignominie e fra sciagure Sta grande e conscio di virtų divine, E gli destan rossor vizi e lordure. Ei molto ignora, ma le sue rovine Attestan quella origin ch'egli avea, E suda a restaurarle insino al fine; E abborre l'angiol vil che il seducea, L'angiolo vil che invano ognor gli grida: ŦNulla tu sei che argilla stolta e rea!ŧ Taci, bugiardo spirto! Iddio m'affida: Ei non m'ha tolto, come a te, l'amore: Uom si fe' perch'io 'l veda ed abbial guida. Servo a lui son, ma sono a te signore; Mal cangi astutamente e viso e manto, Per trarmi fra tuoi schiavi al tuo dolore. Mal di filosofia t'usurpi il vanto, Per insegnarmi il tuo esecrando scherno Sull'alte mire del tre volte Santo! Io caddi al par di te dal regno eterno, Ma non sė basso; e se mi curvo al suolo, Non č per invocar fango ed inferno, Bensė lui, che raddurmi al ciel puō solo! LA REDENZIONE. Bibite ex eo omnes. (_Matth_. 26,27.) Uom, chi sei? Non t'inganni l'argilla Ov'hai stigma d'obbrobrio e di morte. In quel fral maledetto sfavilla Una luce che a Dio somigliō. Spaventosa e sublime parola! Dio nell'uom crea di luce uno spirto, Che dovunque Dio s'alzi trasvola, Che l'abbraccia, che in lui tutto puō. Antichissima colpa ed oscura Dal felice cospetto del Padre Quell'altissima un dė creatura Discacciō, preda a vermi e dolor. Disputar colle belve la terra L'uom fu visto, alle belve agguagliato; Gli elementi gli mossero guerra, Nulla il vinse: egli grande era ancor. Ma pių grande il fe' guardo d'amore Ch'ei pentito osō volgere al cielo: Da quel guardo fu preso il Signore, Scese un giorno, e coll'uomo s'unė. Non fu tolta alla colpa ogni pena Per giudizio ineffabil del Santo, Ma la _coppa del duol_ fu ripiena Di quel Dio che coll'uomo patė. Da quel giorno s'inchina al mortale Ogni mente che inchinisi a Dio, Perch'entrambe con palpito eguale Condivisero gaudio e martėr. Da quel giorno gli spirti del cielo, Cui straniera fu sempre sventura, Santa invidia portaro all'anelo Che per Dio puō con gioia morir. Dal suo abisso l'eterno perduto Leva il capo, e con perfido ghigno Grida:--Vieni, o tu forte caduto! A me vieni, io de' forti son re! E il fellon nega un Dio salvatore; Ma il mortale a quell'empio risponde: --Sento ignota virtų nel dolore, Ciō mi svela che il Provvido v'č! Sė, v'č Dio, l'adorabile, il forte! Fatto l'uom a sua immagine avea: Ei dell'uom meritevol di morte Fessi immagine, e a sč il rïunė. Oh magnanimo, a tanta bassezza Sceso sei per restarne vicino! Pių non nuoce, no, morte, se spezza L'incantesmo che a te ne rapė. Oh mio Dio! pių di morte, crudele Č il dolor che dividemi il core, Ma il dolor convertė l'infedele, Anco i giusti migliora il dolor. Vero č il fatto, innegabil, tremendo: Non v'č in terra virtų senza pianto. Ecco il seno: ah! ch'io t'ami piangendo! Ecco il lacera, il lacera ancor! Benchč al misero umano intelletto Sollevar non sia dato quel velo, Onde piace a colui ch'č perfetto Di sue vie le cagioni coprir, Pur traspar sapïenza divina, Tra la nube dell'alto mistero, In quel lutto che l'anime affina, In quel Dio che per noi vuol morir; In quel nobile amor d'un fratello Che patisce per empi fratelli; In quel gran, di giustizia, modello Che ad un tempo č increato e mortal! In quel senno che sembra follia, Ed č stimolo a somme virtudi, Che qual ombra fugō idolatria, Che fra tutti i nemici preval! LA CROCE. Confidite: ego vici mundum! (_Ioh_. c. 16.) E chi ingannato non sariasi quando All'inesperto giovane intelletto Tal si volgea drappello venerando Per alta fama ed eloquente affetto, Che virtų promettendo, ed appellando A sublimanti indagini ogni petto, Dicea: ŦSiam nati a illuminar la terra, A tutte ipocrisie movendo guerra!ŧ Qual etā vide mai zelo cotanto D'ardenti ingegni, or concitati all'ira Contro menzogna, or concitati al pianto Sulle stoltezze in che il mortal delira? Sė che spesso il lor dir quel grido santo Parea che il cielo a' suoi profeti ispira, Onde riscosse da letargo indegno, Movan le genti di giustizia al regno! Tonerā in quanti secoli fien dati; Alla palestra degli spirti umani, Tonerā il giusto contro i danni oprati Da' fratelli perversi e dagl'insani; E quel tonar perenne i cor bennati Da ignobil opra tener puō lontani, E pių li infiamma od infiammar dovria A sacrifizi, a onore, a cortesia. Ma sciagura sui popoli e sui regi Quando frammisti a nobili pensieri Potentissima scuola alza dispregi Sovra la fonte degli eterni veri! Sciagura sugli stessi animi egregi Che allor di luce esser vorrian forieri! Del vaneggiar d'illustre scuola tersi Arduo a loro medesmi č rimanersi. Ed in simile tempo io son vissuto! Famosi audaci avean deriso l'are, E affascinata dallo scherno astuto Prendea quelli la turba a idolatrare; Bello parve ostentar disdegno arguto Verso chi preci a Cristo osasse alzare, E pių d'un per viltā vituperava Quell'Evangel ch'ei pur nel cor portava, Io dentro al cor portava l'Evangelo, Nč bestemmie contr'esso unqua avventai; Ma perchč s'irrideano e preci e zelo, Non curanza di Dio spesso mostrai, E agguagliato agli immemori del cielo, Plausi e piaceri e vanitā anelai; E pur nell'alma ognor udia una voce, Che dicea: ŦDove vai? Riedi alla Croce! ŦRiedi alla Croce! mi dicea; sė sforza Calunnia indarno di tenerla a vile: La Croce sol gl'indegni fochi ammorza, La Croce sol fa l'uom grande e gentile, La Croce sol dā all'intelletto forza Di diventare all'Uomo Iddio simėle; Se ipocriti talor stanno a' suoi piedi, Non fuggirla perciō: gemine, e riedi! ŦLa Croce altro non č ch'alta dottrina Di generosi e giusti sacrifici; La forza d'affrontar doglie e rovina Per giovare a' tuoi cari e a' tuoi nemici; L'ardir congiunto ad amistā divina; La virtų che nel cielo ha sue radici. Chi per la Croce, ov'ei non sia demente, Meraviglia ed ossequio e amor non sente? ŦE se tu vedi ciō ch'ell'č, se l'ami, Perchč di lei vilmente arrossirai? Perchč, se il travïato empia la chiami, All'impudente voce arriderai? Di lui spregia e compiangi i ghigni infami, Nč incodardir, sotto agli obbrobrii mai: Della Croce magnanimo seguace, Dimostra quanta in abbracciarla hai pace. ŦDimostra che la Croce a chi davvero Suoi pregi indaghi, scema ogni amarezza; Dimostra col tuo oprar, non esser vero Ch'ella guidi a torpore ed a fiacchezza; Dimostra che alto fa l'uman pensiero, Che a tutti i grandi e forti atti lo avvezza; Dimostra che se ride all'ignorante, Pur del nobil sapere č sempre amante! ŦPari ad ogni miglior vantata scuola La Croce insegna dignitā ed amore; Ma in lei sol v'č possanza di parola Che inforzi, e persüada, e appuri il cuore; Unica le angosciate alme consola, Unica abbellir puote anco il dolore: Ogni scuola miglior tituba e illude, Dubbii ed error la Croce sola escludeŧ. Tal mi sonava in cor voce gagliarda, Or č gran tempo, e s'io non l'obbedėa, Del mio spirto esitanza era infingarda, E di rapidi, lieti anni malėa; La retta via scernendo, io la bugiarda Con secreti rimorsi ognor seguėa: Mesto or che tanto resistessi al vero, Miro la Croce--e in sue promesse io spero! GLI ANGELI. Qui facis angelos tuos spiritus. (_Ps_. 103). Con un sol cenno, č ver, l'Onnipossente Puō governar gl'innumerati mondi, Scevro d'ausilio di creata mente; Ma pių degno č di lui ch'ami e fecondi L'universo d'angelici Intelletti, Di cui l'opra sue grandi opre secondi. Ei cosė volle, e spirti a lui soggetti Adempion suoi decreti in ogni loco, Quali a premiar, quali a punire eletti. L'Angiol del Sol, da quel beante foco Ai circostanti globi č fatto legge, E della luce incantali col gioco. Ed ogni astro ha uno spirito che il regge, Od hanne molti, giusta ch'ivi č bello Esser vario de' duci il santo gregge. La nostra terra di sventure ostello, Ostello č pur di squadre celestiali, Onde scempio non facciane il rubello. Per fraterna pietā si fean coll'ali Agli occhi vel, lunge l'acciar rotando Ai cacciati quaggių primi mortali. E d'Adamo fu l'Angiol, che allorquando Reo lo mirō--ŦNon disperar! gli disse, ŦL'Eterno puoi placar, te umilïando!ŧ Poscia ogni volta che la colpa afflisse Cuori che si pentiano, il Signor tosto Di consolarli ad uno spirto indisse. Chi al fido Abramo che sul rogo ha posto Il caro figlio ed il coltel giā snuda, La man rattiene? Un Cherubin nascosto. E quando l'infelice Agar di cruda Sete col figlio langue entro il deserto, Dio fa che l'acque un Angiolo dischiuda. De' dolci Genii ognor s'accrebbe il merto Di quest'esule argilla a giovamento, Per cui sapean che Cristo avria sofferto. Noi vediam nel soave accorgimento Di Rafael (perchč Tobia giungesse D'ogni pių cara brama al compimento) L'amor de' nostri Genii: in lor le stesse Ardono industri fiamme generose Per l'alme peregrine a lor commesse. E pių lieti n'avvampan, dacchč impose L'Eterno a Gabriello il gran messaggio, E Maria Ŧla tua ancella ecco!ŧ rispose. In quel bel dė le sfere tutte omaggio Le prestaro, e degli Angioli reėna Brillō una Donna di terren lignaggio! Qual fu la gioia lor quando in meschina Stalla videro nato il Dio lattante Al sen della Mortal, fatta Divina! Oh felice lo stuolo vigilante De' pastori che l'inno udiron primi, Nuncio alla terra del celeste Infante! Godo in pensar che allor fra que' sublimi Angioli avevi loco, Angiolo mio, Tu che guidarmi or degna cura estimi. Tu l'hai veduto quell'amante Iddio Pender bambin fra le materne braccia, E giā per me il pregavi, e t'esaudėo! E poi seguisti di Gesų ogni traccia Pel cammin della vita, e poi vedesti Sul fero legno sua languente faccia, E di dolor sui falli miei piangesti! II. L'Angiolo! Oh amabil creatura! Un Ente Tutto bellezza, e intelligenza e amore, Che tutto legge nell'eternamente! L'uom qual angiol saria se affrontatore Della sconfitta sua stato non fosse, Bandiera alzando contro al suo Fattore. Ma il reo di sua stoltizia addolorasse, E lagrime spargendo si sommise, E Dio intese sue preci, e si commosse. Del mortale a custodia un Angiol mise, Che lo guidi e consoli, e ognor ripeta: ŦTieni a salute le pupille fiseŧ. Dal giorno poi che nostra afflitta creta Iddio venne a vestire ed a noi diessi, Dolorando e morendo, esempio e meta, Portando noi del divin sangue impressi Sulla fronte i caratteri possenti, Pių invidia non ci fan gli Angioli istessi. Angioli siam noi pur, benchč gementi In questo passeggier regno di morte: Gesų nobilitō nostri tormenti! Perdermi ancor potrei; ma la mia sorte Fidata venne ad un guerrier del cielo: Ei mi regge e difende con man forte. L'Angiol che per mio bene arde di zelo Amo, e cerco, ed invoco, e benedico, E pur di poco amarlo io mi querelo. Ei fra' creati fu il mio primo amico! Il Genio che svolgea ne' miei prim'anni Del Bel l'amore, ond'oggi il cor nutrico! Il confidente de' secreti affanni! L'incanto che i pensier m'ha raddolciti! Il braccio che strappommi a crudi inganni! Oh tutti voi, che da dolor colpiti Gemete in questa valle, abbiate spene Ne' tutelari Spirti a voi largiti! Io troppo spesso ad amistā terrene Volli appoggiarmi, ed eran pochi i fidi Che davver s'attristasser di mie pene. I pių m'amavan per sč stessi, e vidi Taluni rinnegarmi, e perfid'eco Far contra me di vil calunnia a' gridi. Ed io, folle, piangea!--Ma quand'io meco Sentėa il celeste amico mio verace, L'angosciato mio core effondea seco, Ed ei benigno v'istillava pace! III. Angiol mio, dove sei? Mai dal mio fianco Non ti partir, che s'appo me non t'odo, Tu sai quanto al ben far divenga io stanco. Di vane inquïetudini mi rodo, Se a me incessantemente non favelli, E ai vili penso, e d'abborrirli godo. Ottienmi ch'io perdonar sappia ai felli, Ed opri ognor secondo te, secondo L'orme de' miei pių nobili fratelli. Gareggia cogli altr'Angioli che al mondo Offron nelle guidate anime forti D'ardue virtų spettacolo giocondo. Perchč ne' dė lunghissimi che assorti Vissi in prigion, mi sfavillō sė grande La dolce caritā de' tuoi conforti? Perchč tratto m'hai poscia infra ammirande Anime care, ond'una al guardo mio Raggi con te di Paradiso espande? Perchč in me suscitasti alto desėo D'obbedire a quell'una, e perchč festi Ch'ella a me dir curasse: ŦAmiamo Iddioŧ? Grazie, grazie, Angiol mio, de' manifesti Segni di fratellanza! ah sė, tu m'ami! Tu vuoi condurmi a giubili celesti! Tu in guise inenarrabili mi chiami, Per me paventi della colpa i lutti, E mi sveli d'inferno i lacci infami. Salve, bell'Angiol mio! salvete tutti, Angioli tutelanti l'universo, Perch'egli a Dio suprema gloria frutti! Quanti siete v'imploro, a fin che immerso Non vada alcun d'infra gli amati miei Nella voragin dello stuol perverso! E te precipuo invoco, Angiol, che sei Protettor delle belle Itale rive, Difendi il popol mio da influssi rei! Tuoni del Campidoglio in sul declive Sė possente la voce della Chiesa, Che salvatrice a tutte genti arrive! E la face crudel della contesa Fra le varie contrade Itale spegni, E ferva ognuna al comun bene intesa! E dell'alma Penisola i bei regni Di dura signoria non giaccian preda, Ne' di plebei sovvertitori ingegni! Ad ogni alta virtų l'Italo creda! Ogni grazia da Dio l'Italo speri! E credendo e sperando ami, e proceda Alla conquista degli eterni veri. LE CHIESE. Altaria tua! Domine virtutum. (_Ps_. 83, p. 4 ). Oh di preghiera e veritā e conforto E sublimi pensieri amate case, Case di Dio! sin da' primi anni a voi Con rispettosa tenerezza il guardo Io rivolger godea, come a ricovro Di prole addolorata entro riposta D'ottimo padre stanza, a' filïali Lamenti sempre ascoltator benigno. Lunghe l'infanzia mia tenner vicende D'infermitā e mestizia. A me d'intorno Giubilavano vispi e saltellanti, E di bellezza angelica festosi, I pargoletti di que' giorni, ed io, Nato robusto al par di lor, caduto In rio languor vedeami, ed in secreti Indicibili spasmi; e spesse volte Morte ponea sovra il mio crin l'artiglio, Ma per gioco ponealo, e mi sdegnava. Cosė che pur ne' dė quando men egro Io strascinava il corpicciuolo, e lieta La voce uscėa dalle mie smorte labbra, Tra i floridi compagni, ascosamente Spesso mie brevi gioie interrompea La pietā di mia fral, misera forza; Ed impeti frequenti allor d'angoscia Il petto mi premean, sicch'io fuggiva A nasconder mie lagrime solinghe; E quei che mi scopriano indi piangente Per ignota cagion, mi dicean pazzo. Salve, o gotici, begli archi del Tempio Che di Saluzzo č gloria! Archi, ove m'ebbi Alle mistiche fonti il nome caro D'un tra i vati gentili, onde graditi Sonaron carmi per le patrie valli. Palpiti d'esultanza erano i miei Quando me tenerello a quell'angusta Chiesa portava a' dė festivi il pio Braccio materno; e ricordanza vive In questo cor della speranza arcana Che molcea i mali miei, quando su quelle Antiche, venerande are il mio ciglio Supplicemente ricercava Iddio. E salve, o tempio di men nobil foggia, Ma parlante a me pur dolci memorie, In Pinerol, cittā seconda, ov'io Riposai le mie inferme ossa crescenti! Lā nelle vespertine ombre, al chiarore Della lampada santa, io colla madre E col fratel pregava la pietosa Degli Angioli Regina e degli afflitti, Ed in secreto a lei mi cordogliava De' malefici influssi, onde a' miei nerbi Strazio era dato, ed al mio cor tristezza, Ed aïta io chiedeale, ovver la tomba. Ma l'infantil querela uscėa con sensi D'aumentata fiducia, e allevïarsi In me sentėa l'affanno, e sentia l'alma Di pensier fecondarmisi e d'amore. Nelle tue, Pinerolo, aure dilette L'adolescenza mia fu di soavi, Religïosi gaudii confortata; E indelebile č in me l'ora solenne, Quando, trepido il sen, mossi all'altare Tra drappelletto di fanciulli il grande Atto a compir, di confermar col proprio Conoscimento le promesse auguste, Che di virtų magnanima al battesmo Pronunciarono labbra altre per noi. Oh nobil rito! oh santo olio! oh possente Grazia del Crisma! oh simboli che tanto A sublimi desiri alzan la mente! Con pompa veneranda il Pastor santo Presentasi all'altare, e a lui corona Fan suoi pii Sacerdoti in aureo ammanto. Celestiale armonia nel tempio suona Di cantici divoti, e di pietate Palpita il core a ogni gentil persona; E pių alle madri che nel vel celate Delle viscere lor sui cari frutti Tengono le pupille innamorate, Scongiurando che a Dio s'elevin tutti. ŦRe del ciel che noi madri volesti Di que' giovani spirti diletti, Nel dolore li abbiam benedetti Pria che i cigli schiudessero al dė; Nel dolore li abbiamo allattati, Custoditi li abbiam nel dolore: Ah, per essi t'offriamo, o Signore, Tutto ciō che nostr'alma patė! Il tuo spirto divino discenda In que' teneri ingegni inesperti: Li fortifichi, li alzi, li accerti Della Croce per l'arduo cammin. Oggi intendano e intendan per sempre Che non nacquero a ignobile cura, Che son enti d'eccelsa natura, Che la palma celeste č lor fin! Il tuo spirto divino addolcisca Que' germogli del sesso pių forte: Non paventin perigli, nč morte, Ma li tempri alto senso d'amor! Il tuo spirto divino sostenga Que' germogli del sesso pių amante: Sieno spose, o sien vergini sante, Ma in bell'opre virile abbian cor! E delle accolte, lagrimose madri Col tacit'inno pe' figliuoli amati Il secreto consuona inno de' padri; Sebbene i maschi petti ammaestrati Da esperïenza e fantasie pių meste, Veggan su que' fanciulli or sė beati Minacciose adunarsi, atre tempeste. ŦGiovin'alme, or v'assecura Quella pace che gustate E all'Altissimo giurate, Immutabil fedeltā: Ma non conscii voi tocca l'aurora D'un'etā di prestigi e di guerra, Che vi chiama, vi sprona, v'afferra, Vi strascina, a qual meta non sa! Ah, noi pur dal Crisma santo Confermati esultavamo, E spogliar l'antico Adamo Era saldo in noi desir! Ma spuntato quel tempo tremendo Che i mortali a cimento conduce, Spesse volte falsissima luce In rei lacci ne fece languir. Pių gagliardi, pių assistiti Da invisibili portenti Voi non domino i cimenti, Voi pių traggano a virtų: Una stirpe formate di prodi Che agli esempi vigliacchi s'involi, Che la Chiesa gemente consoli, Ch'altre stirpi consacri a Gesųŧ! Mentre de' genitori i voti accesi Sorgono per la prole benedetta, Stanno i fanciulli all'alta pompa intesi, E ciascun d'essi palpitando aspetta Lo Spirto Santo e la percossa, donde L'alma a patir per nobil opre č eletta. All'unzïone, al tocco, alle profonde Del Vescovo parole, il giovin core Con proposti magnanimi risponde. Mai paventato non avea il Signore, Come il paventa in quest'istante, e mai Non avea per Lui tanto arso d'amore! Nessun dica al fanciul: ŦTu obblïerai Questo gran dėŧ: pių non possibil crede Volgere a colpa affascinati i rai: Trasmutato a quel rito in uom si vede; Sdegna le vanitā, sdegna i piaceri; Pių non vuol che Speranza e Amore e Fede, E benefici, puri, alti pensieri, E studi gravi, e faticante vita Pe' divini del Golgota sentieri! Ah! benchč poi dopo cotanto ardita Dolce fidanza, a tempo non lontano Trascorra ov'a lui d'uopo č nova aïta, Al Crisma santo ei no, non mosse invano: Perō che in lui ritorna con possanza Questa voce secreta: ŦIo son cristianoŧ! E ripiglia la Croce, e al ciel s'avanza. ~~~~~~~~~~ A me quella secreta, amabil voce Pių nella giovinezza non dič posa, Sė che sovente alla gettata Croce Rivolsi la pupilla timorosa; E sebben mi paresse incarco atroce, La riportai con esultanza ascosa, Rammentando mia infanzia, quella Chiesa, E quel Crisma, e la possa indi in me scesa. E qual fu lo splendor d'un altro giorno: Il giorno in cui di sč nutrimmi Iddio! Ah! non in tempio di gran pompa adorno Trarre allor mi fu dato al festin pio: Genitori e fratei piangeanmi intorno, E venne il Pan celeste al letto mio! E l'accolsi agognando inclita sorte Dopo la sovrastante ora di morte Ma l'offerta ch'io pronto a Dio porgea, Non fu accettata, e lunghi dė ancor vissi! Oh! chi puō dir con qual d'amore idea Morte sperando al Salvator m'unissi? Mille fïate poscia a me riedea La ricordanza di quel giorno, e dissi: ŦDeh, possa ancor con sė sublime amore, Come in quel dė, ricever io il Signore!ŧ Quindi appena sui pič mi ressi alquanto Dopo quel memorando atto divino, Mossi alla chiesa, e di dolcezza ho pianto, Ivi tornando al sovruman festino: E mi parea che con dolor pių santo Io sopportassi l'egro mio destino, E che tutto il mio core arder dovesse In avvenir di quelle fiamme istesse. L'ombra del tempio al giovinetto č invito A pensieri gentili ed elevati: Tacite preci, canto, augusto rito, Tutto ivi il trae da' ciechi impeti usati; Tutto l'inizia a pregiar l'uom, munito Di ragione e d'affetti alti ispirati; Santa filosofia quivi il matura Sė che in terra egli stampi orma secura. Che se ignobile in terra orma sovente Stampa il mortal che pio fu giovanetto, Non č giā perchč sia guida impotente Religïone a obbedïente petto, Ma perchč alla celeste Conducente Sveltosi l'uom, s'affida a novo affetto, E segue il proprio orgoglio e i vili esempi, E teme la beffarda ira degli empi. Oh come lor beffarda ira scagliata Contro gli altari l'alma mia percosse! Ed, ahi! la prima voce scellerata, Che da innocente fede mi rimosse, Uscė da tal, che, dopo aver sacrata Sua vita al tempio, il divin giogo scosse! Quanto č alta luce pio, ver Sacerdote, Tant'č funesto mastro ogni Iscariote! D'inferno una smania Tormenta quel tristo, Che indegno consacra La coppa di Cristo, Che insegna il Vangelo Con labbro infedel; Che invidia de' laici Le vesti e la chioma, Che irato sogghigna Sui cenni di Roma, Che nutre eresia Mal cinta da vel. Ossesso quel petto Quïete non gode Se in alme innocenti Non getta sua frode, Se non avvelena Lor candida fč: Ei spera, involando Credenti al Signore, Estinguere il verme Che rodegli il core, E dirsi: ŦPer gli empi ŧCastigo non v'čŧ. Tal fu lo sciagurato, onde la prima Fïata io stupefatto e impaurito Intesi accenti di bestemmia astuti Contro a' misteri, dietro cui l'eterna Maestā del Signore all'uom traluce. Avess'io a quell'apostata strappata L'indegna larva! L'avess'io al cospetto De' giusti vilipeso! Io stoltamente Tacqui, e volsi nel cor le rie parole Dell'incarnato Sātana, e sorrisi Al suo ingegnoso e perfido sorriso, E in forse stetti, fra i dettami austeri Da veritā segnatimi, e i dettami Lieti e superbi del parlante serpe. Da quel funesto giorno io non potei, No, disamar le sante are paterne, Ma a quando a quando io le mirava, incerto Se venerar le dovess'io, siccome Ne' miei dė d'innocenza, o se pių senno Fosse obblïarle o irriderle, e aver soli Idoli i miei voleri e il mio ardimento. Cosė varcai l'adolescenza, e gli anni Toccai di giovinezza, ebbro di studi E di speranza nelle forze innate Del mio altero intelletto. E pure i templi Secreto avean per me fascino sempre! E sovente io gettava i baldanzosi Libri, e fuggėa le argute, empie congreghe, Per raddurmi solingo e sconfortato Sotto i tuoi grandïosi archi vetusti, Lugdunense Basilica, ove i primi Apostoli di Gallia hanno sepolcro! Oh bella chiesa! Quante volte prono Colā pregando e meditando io piansi Le natėe abbandonate Itale sponde, E il focolar lontano, ove la madre Ed il padre e i fratelli erano assisi, E piansi in un mie tenebre, miei dubbi, Mie passïoni, ed il perduto Iddio! Perduto, no, per me non era! e il lume Di lui mi sfolgorava alcune volte Sė che sparėan le tenebre, e di novo Io mandava dal core inni di gioia. Ma tempi erano quei di non verace Filosofia, sulle rovine sorta Di molti altari, e sovra molto sangue; E la Gallica terra, infra sue pesti, Di sacerdoti rinnegati avanzo Chiudea velenosissimo; e i pių feri, Pių studïosi e scaltri eran nemici De' sacri templi, rïaperti allora, E dal Corso magnanimo scettrato Arditamente in onoranza posti. Un di que' Giudi inverecondi a' passi Miei s'attaccō: l'ornavan lusinghieri Eletti modi, e pronto ingegno, e il foco De' sottili motteggi scoppiettanti, E facile parola, e d'infiniti Libri conoscimento, e quell'audace Sentenzïar che sicuranza appare. Sommessa voce ripetea d'orecchio In orecchio: ŦEi fu monacoŧ! E la macchia Sciagurata d'apostata sembrava Sedergli orrenda sulla calva fronte, E dir: ŦNessun pių sulla terra l'ami!ŧ E nessun pių l'amava, e nondimeno Ascondean tutti l'intimo ribrezzo, E cortesi accoglieanlo, e davan plauso Alla dolce arte della sua favella. Quella canizie al disonor devota Orror metteami e in un pietā. Pių giorni L'esecrai, l'osservai, gli porsi ascolto Come a stupendo rettile, e gli chiusi I miei pensieri; indi scemō l'occulto Raccapriccio, e piegai pių tollerante L'alma alle grazie di quel falso ingegno. Oh pe' giovani cuori alta sventura Lo scontrarsi in sagaci empi, che fama Di lunghi studi grandeggiar fa al guardo Dell'attonito volgo, e d'intelletti Che pur volgo non sono! Al rinnegato, Pur non amandol, mi parea di stima Ir debitor per l'inclite faville Del possente suo spirto, e palesava Ei di mia riverenza e d'amistade Gentil, singolar brama; e questa brama Era al mio stolto orgoglio esca gradita. Lunghe non fur tra noi le avvicendate Confidenze ed indagini, e m'invase Giusto corruccio, e da colui mi svelsi: Ma le illudenti sue dottrine, a guisa Di succhiante invisibile vampiro, Stavan su me, riedean cacciate, e furmi A tutti i giovanili anni tormento. ~~~~~~~~~~ Pių vivo in me si raccendea l'amore Delle case di Dio, quando rividi, Bella Italia, il tuo sole animatore, E m'accolsero i cari Insubri lidi, Dove gli avi mostrar quanto al Signore Fosser devoti e a grande intento fidi; Tal sacra ergendo maestosa mole, Che a lodarla il mortal non ha parole. Troppo ancora in Milan l'anima mia Tra giochi e alteri studii vaneggiava, E glorïosi amici e fama ambėa, Ed ogni dė pių folli ombre afferrava. Ma pur di salutar malinconia Frequente un'ora i gaudii miei turbava, E al tempio allora io rivolgeva il piede, E in me scendea consolatrice fede. E l'amato mio Foscolo infelice, Sebben lui fede ancor non consolasse, Talor volea con umile cervice Mescersi all'alme per cordoglio lasse, Che la bella de' cieli Imperadrice Imploravan che a lor grazia impetrasse; E quando al tempio a sera ei mi seguiva, Indi commosso e pensieroso usciva. Oh quante volte insiem quella scalea Ascendemmo del duomo inosservati! Quante volte in quegli archi ei mi traea, E lā susurravam detti pacati Sul beneficio d'ogni eccelsa idea, Sui vantaggi dell'are all'uom recati, Sulla filosofia maravigliosa Che della Chiesa in ogni rito č ascosa! Oh allorquando vi penso, io spero ognora Che, pria di morte almen, quell'alto ingegno Avrā veduta la söave aurora Del promesso agli umani eterno regno! Spero che quella forte anima ancora Nodrito avrā del ciel desėo sė degno, Che quel Dio che sol vuole essere amato Avrā i tardi sospiri anco accettato! Con reverenza visitava io pure Altre in Milano vetustissim'are: Quella ov'a Sant'Ambrogio ama sue cure Il buon Lombardo con fiducia alzare, Ed il sacel, dove Agostin le impure Fiamme alfin volle in sacra onda smorzare, E colā volgev'io nella mesta alma Sete di veritā, sete di calma. Ed in talun di quegli alberghi santi Una donna io vedea ch'erami stella; E a lei movendo i guardi miei tremanti, S'umilïava mia ragion rubella: Mi parea ch'a me un angiolo davanti Stesse per me pregando, e allora in quella Amica del Signor ponendo io speme, ŦAh sė, diceva, in ciel vivremo insieme!ŧ Ma de' templi alla mistica dolcezza Vinto non era appien l'orgoglio mio: Il passo indi io traea con leggerezza, E i gravi intenti rimettea in obblio: Rossor prendeami appo colui che sprezza Chi, pari al volgo, osa implorare Iddio: Io mi volgeva a Dio, ma come Piero, Interrogato, ahi! rinnegava il vero! E poi non come Piero io mi pentiva Con dïuturno, generoso pianto; Incostante nodrėa fede mal viva, E a guisa d'infedele oprava intanto: Allor fu che la folgor mi colpiva, E ogni mortal mio giubilo andō franto, E in man mi vidi d'avversario forte, Me condannante a duri ceppi o morte. Oh lunghi di catene e d'infiniti Strazi del core inenarrabili anni! Ed oh! com'anco in giorni sė abborriti Mia fantasia godea sciogliere i vanni, E fingersi ogni sera entro i graditi Templi, ed ivi esalar gli acerbi affanni! Poche amate persone e i patrii altari Erano allora i miei pensier pių cari! Oh quai mi parver secoli Que' primi anni di duolo, In che fra mura squallide Vissi cruciato e solo! Nč mai con altri supplici Sorgea la prece mia, Ed il desėo del tempio La pace a me rapėa! Mi si pingeano i fervidi Religïosi incanti, Le grazie che sfavillano D'in sugli altari santi: E di Davidde i gemiti, E gli avvivanti lumi, E le armonie dell'organo, E i mistici profumi, E l'ineffabil agape, Ove il Signore istesso Pasce e solleva ad inclite Speranze l'uomo oppresso. Allor la vil perfidia Del mondo io ricordando, Dare ai profani gioliti Giurava eterno bando, E con insonni pālpebre, E con preghiera accesa Chiedea versar mie lagrime Ancora entro una chiesa. Mi sovvenian le placide, Ombre de' monasteri, E le velate vergini, Ed i romiti austeri: E tormentosa invidia Prendeami di que' petti Ch'appo gli altari effondere Doglia potean e affetti. Ma in quella mia nel carcere Brama de' sacri ostelli, Söavi sensi teneri Pur si mescean novelli. Rendeva al Cielo io grazie Che i genitori amati Piangere almen potessero Anzi all'altar prostrati. Anzi all'altar che ai miseri Sol puō istillar virtute, Che rïalzar puō l'anime Da angoscia pių abbattute! ~~~~~~~~~~ Un giorno alfine, oh fortunato giorno! Nunzio ne venne che sariane schiuso Della comun preghiera ivi il soggiorno: E tratto per brev'ora allor dal chiuso, Rividi il tabernacolo, ove alberga Colui che in ciel di gloria č circonfuso. Tempio quello non č ch'ardito s'erga Sovra eccelse colonne, e in maraviglia, Quasi reggia celeste, i cuori immerga. Poco pių che a magione umėl somiglia, E pur ivi m'invase quel tremore Che per solenne ossequio all'uom s'appiglia; E per quell'ara palpitai d'amore, Come mai palpitato io non avea, E in ver sentii ch'ivi sedea il Signore! Brev'ora fu, ma pure indi io sorgea Trasmutato in altr'uom, portando in seno Il Salvator che i mesti accoglie e bea. E tale in que' momenti era il baleno Della luce divina in me raggiante, Che il patir mi parča di gioia pieno, E leve il ferro mi parea alle piante. ~~~~~~~~~~ Oh di Spielbergo semplice chiesuola, Ove non s'alzan preci altre giammai, Che del mortal che cingesivi la stola, E di viventi infra catene e guai, Ah, in te risplende pur Quei che consola! Quei, che del fiacco non respinge i lai! Quei, che l'amaro calice accettando, Com'uomo il rimovea raccapricciando! Con qual desėo la settima festiva Aurora io nel mio carcere attendea! Per sei giorni in mestizia illanguidiva, O la mente pensosa egra fervea, E talor preda sė di larve giva, Che il lume di ragion perder temea: In quell'ore io talvolta Iddio cercava, E, inorridisco in dirlo! io nol trovava. Ma il giorno del Signor rivedea alfine, E mettea lieto suon la pia campana, E a söavi pensier l'alme fea chine, E a ricordanze dell'etā lontana: Potenze inespressibili, divine Scemar parean l'orror della mia tana, E a me, come a fanciul, batteva il petto Di quel festivo bronzo al suon diletto. Poi tutte disparian mie cure atroci Quando il pietoso sgherro aprėa le porte, E de' compagni mi giungean le voci, E la imperante seguivam coorte; Gli avvinti si porgean cenni veloci Di costante amistā nell'aspra sorte; Ma non a tutti amici ivi era dato Incontrarsi, parlar, pregare allato. Sempre, sempre novella, alta esultanza Il commosso m'invase animo, quando In quell'incolta ma pur sacra stanza Posi il pič, mie catene strascinando, E in simbolica vidi umil sembianza Suoi sfolgoranti rai Gesų ammantando Benedirci, e per noi con inesausto Amore offrirsi al Padre in olocausto. Colā il Signor mi favellava al core, E la sua voce somigliava a quella D'amorevole, ansante genitore Che a sč un figliuolo sconsolato appella, E ŦDisgombra gli dite, ogni timore ŧChe mai mia tenerezza io da te svella! ŧVeggio che disamar tu me non sai, ŧE ciō che indi tu vuoi, tutto otterrai!ŧ Ei mi diceva inoltre:--ŦIo t'ho punito ŧNon giā per rabbia onde avvampar non soglio, ŧMa perchč il prego mio non era udito, ŧE sė correvi per le vie d'orgoglio, ŧChe obblïato me avresti, e lui seguėto ŧChe l'alme adesca all'eternal cordoglio: ŧCon forte piglio il correr tuo rattenni, ŧMa t'amai, t'amo, e per salvarti io venni!ŧ Io mi gettava allora a' piedi suoi Con dolcezza ineffabile, e piangeva, E sclamava: ŦSignor, fa ciō che vuoi ŧDi questo figlio della debol Eva!ŧ ŧSordo vissi, pur troppo, a' cenni tuoi, ŧMa tua incorante voce or mi solleva: ŧNulla sperar dovrei, ma poichč m'ami, ŧUn don ti chieggo ancor--ch'io ti rïami!ŧ E poi prendea fiducia, e proseguėa A lui tutti schiudendo i miei desiri: Lo supplicava per la madre mia Che sparso avea per me tanti sospiri! Pel dolce padre calde preci offrėa! Per tutti quegli amati onde i martėri M'eran del martėr mio pių dolorosi, E ch'io tanto di me sapea bramosi! Del Moravo castello umil tempio, Quante grazie ti debbo soavi! Il mio spirto pöetico alzavi Dai terreni, opprimenti dolor. Io sentiva entro te que' dolori, Ma diversi, ma misti a contento: Io chiedea raddoppiato tormento, Purchč Dio m'addoppiasse l'amor. Io il disprezzo acquistava de' ferri, Ma non pių quel disprezzo superbo Che del vinto fa l'animo acerbo Contro quei che nel lutto il gettār. Io sperava, io credea che i vincenti M'assegnasser destin sė tremendo, Non vil odio, ma sol rivolgendo Di giustizia rigor salutar. Io dicea che se in pugno tenuto Uno scettro in que' giorni avess'io, Gli avversanti dell'animo mio Con isdegno atterrati avrei pur: E scernea che son fremiti ingiusti Que' dell'uom che da forti domato, Non ripensa ch'ei forza ha sfidato, Che d'un dritto essi i vindici fur. Compiangea il fato mio, ma pensando Qual dover mosse i giudici miei: Ma pensando che in ciel li vedrei S'io perdon ritrovava al fallir. E di grazia per me sospiroso, Supplicava ogni grazia per essi, Presentendo i reciproci amplessi Lā dov'ira non puossi nodrir. Della chiesuola de' prigioni uscito, Io ritornava entro mia mesta cella Col sen da mille affetti intenerito, Con fantasia pių generosa e bella: L'ineffabil poter del santo rito Avermi parea dato alma novella: Ed intero quel dė lieto sciogliea Di David gl'inni, ed inni altri tessea. Oh facoltā di poëtar gioconda, Ma pių negli anni orribili del lutto, Quando forza divina il core inonda E d'eccelsi pensier lo infiamma tutto! Quando nell'uom tal grazia sovrabbonda Che a benedir sue croci indi č condutto! Face di poesia! senza una chiesa, No, non saresti in me rimasta accesa! E se tal possa amabil dell'ingegno In me si fosse per dolore estinta, Languito avrei d'ira e superbia pregno, O l'alma a vil furor sariasi spinta: Della vita un frenetico disdegno Spesso prendeami in tanti mali avvinta, Poi la luce de' sacri inni tornando, Io riponea l'empio disdegno in bando. Il mortal che in mestizia s'inabissa, E fero soffre ineluttabil danno, Sempre in oggetti d'ira il guardo affissa; Ogni umano gli par vile o tiranno; L'altrui virtų al suo torbo occhio s'ecclissa; In tutti sogna i benefizi inganno; E fraterna pietā posta in obblio, Disama e niega e maledice Iddio. Filosofar s'immagina il fremente Calunnïando il mondo e il Créatore; Ma chiudendo a' pensieri alti la mente Tutto mira a traverso empio livore, Bugiarda estima ogni men atra lente; Satana č il suo maestro e il suo autore; Armi date e coraggio a quell'ossesso, Ed eccol trucidare altri o sč stesso. Vicino a quella infame insania giacqui Pių d'una volta a' giorni incarcerati; Ed allor tetramente mi compiacqui Ricordando que' libri sciagurati, Che nell'audace secolo in cui nacqui Plausi a ferocia e suicidio han dati, E col velen de' rei volumi in petto, Volvea il fin dell'apostol maladetto. Grazie, chiesuola, a' prigionieri amica! Da te emanava inenarrato incanto! Da te riedea la mia fiducia antica Nell'assistenza del tre volte Santo! In te il perdon non mi costō fatica! In te d'amore e di dolcezza ho pianto! In te ne' tristi dė ripigliai lena, E sino al termin sopportai mia pena! Improvvisa comparve un'aurora Che distinguer dall'altre non seppi, E la sera ivan sciolti i miei ceppi! Ed uscii dall'orrendo castel! Del decennio l'angoscia mortale Un istante, un accento avea sgombra: Dalla fossa qual reduce un'ombra, Mi stupėan terra ed uomini e ciel. Traversai valli e balze straniere, M'avvïai della patria a' bei lidi, L'Alpe ascesi, ed oh gioia! rividi La natíva penisola alfin. Al dolcissimo letto del padre Egro giunsi, ma giunsi felice: Lui rividi e la mia genitrice; Tra lor braccia mie pene avean fin! ~~~~~~~~~~ Ahi! nuove, pene sempre cingon l'uomo, Bench'ei talvolta in impeto giulivo Tutte calamitā creda aver domo! Piansi pių cuori amati onde me privo Gli strali avean d'inesorata morte, E pių d'un ch'io lasciato avea captivo! Allegrar mi volea della mia sorte, Ma spesso in cupo involontario duolo Mie deboli potenze ivano assorte. Ciō ch'io patissi, Iddio conosce solo, La mente rivolgendo a tanti cari Del cui lungo martir non mi consolo! Il mondo mi dicea! ŦSe ancora impari Ad ambir le mie feste e i miei sorrisi, Sollevati saran tuoi giorni amariŧ. Ma indarno sovra lui le ciglia affisi: Ei pių non mi rendea que' dė lontani Ch'io con altre dolci alme avea divisi! Gratitudin destavanmi gli umani Che generosi mi plaudeano intorno, Ma i plausi lor pur rïuscianmi vani. In sė frequente di dolor ritorno, Il loco ove ogni dė forza racquisto Č quel dove le sante are han soggiorno: Ogni mattin lā prono a' pič di Cristo Breve, benefic'ora io volger amo, Ed esco allor pių dolcemente tristo, E conformarmi al divin cenno io bramo. ŦEntro i templi, pari al volgo, Di prostrarti non vergogni? Lascia, stolto, i vieti sogni: Sol ne' sensi č veritā. Pari a noi, sii glorïosa Del tuo secolo facella: Al pensar de' forti appella La crescente umanitāŧ. ŦAl pensare de' forti l'appello; Forti son que' che regge l'Eterno: Molti errori nel volgo discerno, Ma non quando umil viene all'altar; Ma non quando suoi falli ripensa; Ma non quando li lava col pianto; Ma non quando de' Santi nel Santo Alza i lumi, e lo vuol seguitarŧ. ŦD'un Iddio pur si favelli; Ma di templi, ma di riti, Ma di spiriti contriti Fastidito č il pensator. Basta a gloria delle genti Predicar virtų civile, Maledir ogni opra vile, Intimar fraterno amorŧ. ŦCh'altro grida la voce dell'Ara, Che civili, fraterne virtuti? Fiacchi sono del senno gli aiuti, Se l'Eterno virtų non impon. D'uomo il senno ch'a Dio non s'eleva Con qual dritto imporrā sacrifici? Senza Dio l'uom ne' giorni infelici Ruba, insidia, trucida a ragionŧ. ŦSe adorar si vuole un Nume, Sieno semplici omai l'are; Vane pompe ad esecrare Ne consiglia l'Evangel: Volgi l'alma a culto novo; Il vetusto s'abbandoni: Non pių incensi, effigie, suoni; Ma qui l'uom, lā il Re del cielŧ. ŦSventurati! v'abbagliano l'ire; Gl'intelletti ad amore schiudete, E virtų e veritā scorgerete Nelle pompe che innalzano il cor: Non son vane se non pel fremente Che lor sacra potenza dileggia, Che il suo rigido spirto vagheggia Non il bel, non Iddio, non l'amor!ŧ ŦChi son quegl'iniqui Che parlan di Dio? Chi sei che linguaggio Usurpi d'uom pio? Dai ceppi in che fosti Sol frode provien. Da noi t'allontana Ch'a Dio, a Sacerdoti Vivemmo fedeli Dagli anni remoti, Mentr'empie covavi Dubbianze nel sen!ŧ ~~~~~~~~~~ ŦFelici voi che al lume eterno ingrati Non foste mai, siccome questo insano! Ma nulla tolgo a voi, se ardisco alzati Tener gli affetti al Salvator Sovrano. I templi non a soli intemerati S'apron, ma accolgon pure il pubblicano: Di voi, di me pietā prenda il Signore, Ed in noi colla fede istilli amore!ŧ LE PROCESSIONI. Vexilla Regis prodeunt. (_Eccl. hymn_.). Dolce č l'aspetto De' templi santi, Dove tra faci Sfolgoreggianti, Dove tra incensi, Dove tra canti Di Dio grandeggia La maestā; Dove al mortale Le sacre mura Tolgono il resto Della natura, Dove ogni oggetto Ch'ei raffigura Gli dice: ŦAdora, L'Eterno č lā!ŧ Nondimeno allorquando dal tempio Uscir vedesi l'Onnipotente, Tra le mani d'un debil vivente, Pe' sentieri che tutti calchiam, Pare a noi che vieppių ci sorrida, Che vieppių ci si faccia fratello: Per pregarlo un impulso novello, Una nova speranza sentiam. Egli č il Re che diffondersi brama, Che pacifico vien dalla reggia, Che fra i sudditi amati passeggia, Che lor volge parole d'amor: Egli č il padre che visita i figli, Che s'appressa a ciascun de' lor petti, Che lor mostra quant'ei si diletti Di cercarli, di starsi fra lor. Oh nel moltiplicar tuoi benefici, Ricca d'industrie amabili e sublimi, Religïon che a' tuoi sinceri amici Con sė söavi grazie amore esprimi! Religïon, che pur ne' tuoi nemici A lor dispetto meraviglia imprimi! Religïon d'imperscrutati veri, Bella in tuoi grandi lampi e in tuoi misteri! Splendono innumerati i santi modi Con che rammenti agli uomini il Signore, Con che il Signor medesmo offerir godi Alla vista de' popoli ed al core; A te non basta in mezzo a preci e lodi Sull'ara alzar la diva Ostia d'amore; Fuor de' delubri, tu la traggi, e in pie Feste l'elčvi per le dense vie. Perchč iroso talun le venerande Processioni con ribrezzo guata? Perchč immagina ei tutta in miserande Cure avvolta la turba ivi adunata? In ogni loco, ottusa al Bello, al Grande Langue, č ver, pių d'un'alma sciagurata, Ma gente č pur che il Grande, il Bello ancora Sente con forza, e, quando sente, adora. Alme sono, in cui ragione Ed amante fantasia Tal serbarono armonia Che abbellisce ogni pensier: Chi ragion vuol tutta gelo Senza slanci, senza affetto, Tarpa l'ali all'intelletto, Non s'innalza fino al ver. Tutto Ciō che santo brilla, Che divelle dalla creta, Che solleva ad alta meta, Dobbiam credere ed amar: D'infelici sprezzatori Non confondaci lo scherno: Vile sforzo č dell'inferno ogni cosa dissacrar. Quali volge a noi la Chiesa Rimembranze in tutti riti? Son materni, dolci inviti A speranza ed a fervor. Il Signor quando discende, Quando incede in mezzo a noi, Chiede amore a' figli suoi, Chiede e in un largisce amor. Indelebil mi sei, giorno lontano Allor che in giovenili anni a me stanza Era söave lido oltramontano: Cessava la sacrilega burbanza Dalla falsa republica ostentata Contro la dolce degli altar possanza; E l'ardito mortal che, rovesciata La licenza volgar, lo scettro prese, Volle che laude fosse a Dio ridata. Da lungo tempo augusta dalle chiese Pompa uscita non era d'alternanti Supplici turbe a fervid'inni intese, Ricordavano solo alcuni santi Vecchi le amate feste, ove il Signore Passeggiava cogli uomini preganti. Di repente riviver lo splendore Ecco di quelle feste a' Franchi lidi, Ad un cenno del Corso Imperadore. E con gara magnifica allor vidi Il popolo esultar, che finalmente Fosser compressi di bestemmia i gridi: E la cittā del Rodano opulente Sfoggiō tappeti e drappi ed archi e troni Al quaggių ridisceso Onnipotente. Gioiva la caterva udendo i buoni Racconti de' vegliardi, ed esclamava: ŦDi novo esser del ciel vogliam campioni!ŧ Intanto ognun con dignitā n'andava Qua e lā per le strade brulicando, O a' pensili balconi susurrava, Lo spettacol santissimo aspettando. ~~~~~~~~~~ Del cannone il fragor nuncio prorompe, E da ogni parte ecco seguir silenzio; La procedente pompa in quell'istante Prese le mosse avea del tempio. E oh quale In tutta quella turba apparėa senso Misto di gaudio, di stupor, d'ossequio, Di terror sacro! E nel quadrivio tutti Protendeano la testa, impazïenti D'appagar le pupille in quel sublime Intervenir del Re dell'universo Tra le infelici vie che de' mortali Cingon le case! Il cinguettėo s'andava A poco a poco intorno rïalzando, Sin che ad un capo della via rifulse La prima Croce, e la seguia drappello Di devoti cantanti. Allor di novo Regnō silenzio. A quella prima Croce Ed al suo stuolo, stuoli altri seguėro, Con altre Croci ed elevate insegne, E varii ammanti, onde scerneansi varie Affratellanze di civili uffici E di sacerdotali. Inteneriva Quell'ineffabil mistica armonia Degli aspetti, moltiplici, e dell'inno Da tante bocche e tanti cuor sonante, E del brillar dell'infinite faci, Il pio simboleggianti amor ridesto. Bello il mirar lā sovra antiche gote Lagrime di piacer! Lā, sovra gote Di dolci verginelle e di lor madri Lagrime d'agitate alme, ferventi Di caritā reciproca e di gioia! E lā l'ansante genitrice in alto Il suo bimbo elevar, sė ch'egli scorga La maestā del rito, ed insegnargli A riportar la tenera manina Sulla fronte e sul petto e sulle spalle, Balbettando la trina alma parola, Che de' cattolici č gloria e salute! Poi tragittate le abbondanti schiere Che annunciavan l'Altissimo, ecco un nembo Di timïāmi, e fra quel nembo pria Vago drappello d'angioli incensanti, E fiori per la sacra aura spargenti; Indi--oh spavento! oh amore!--indi Colui Che la terra creō, che creō i cieli, Che l'uom creō, che all'uom s'unė, e divisa Dell'uom l'ambascia, il consolō e redense! A cotal vista l'adorante folla Genuflessa cadeva, ed i singhiozzi Udii di molti che dicean: ŦSignore, ŧPietā di me che te cotanto offesi, Ed ammenda desėo!ŧ --Stava fra i mille Colā prostrato un giovane infelice, Ch'empio non era stato, e sempre in core D'amor favilla avea per Dio nodrita, Ma pur sovente dal demōn superbo Delle dubbiezze invaso avea lo spirto. E certo le dubbiezze eran flagello Da Dio permesso, perchč umėl non era Di quel giovin lo spirto, e si credea D'altissima natura, atto all'acquisto D'ogni saper cui non s'aderge il volgo; E lungh'ore ogni dė sedea solingo Fra libri ottimi e pessimi, e scrutava La veritā--dimenticando spesso D'invocarla dal ciel. Ma in quel gran giorno Dell'adorabil pompa, in quel momento Che a mille a mille si prostrār gli astanti, Ed anch'egli prostrassi; il giovin, pieno Poco prima di tenebre, una luce Vide novella, e umilïō l'altero Intelletto con gioia, e senza orgoglio Fu per pių giorni e immacolato e forte. E quando quell'audace irrequïeto Tornava a' suoi deliri, investigando Con indagin profana alti misteri, Scontento si sentiva e sen dolea; Ed in sč di quel giorno Lugdunense La ricordanza ridestava, in cui S'era con fede innanzi a Dio gettato; E tale avventurosa ricordanza Lui consolava, e gli rendea sovente, Od accresceagli della fede il raggio! ~~~~~~~~~~ V'amo, o Processïoni! e v'amo tutte, Pubbliche preci dalla Chiesa alzate Ad inforzarci in perigliose lutte! Io son quell'un, che da dubbiezze ingrate Afflitto in gioventų, pur vi cercai, Ed hovvi schiettamente indi onorate. E non sol nelle feste, ove, i suoi rai Nascondendo, intervien l'Ostia divina, D'indicibil dolcezza io m'esaltai; Ch'ovunque l'uom pregando pellegrina Affratellato al suo simėle e canta, Sento un poter che a Dio mi ravvicina. Quant'amo l'adunanza umile e santa De' confidenti nell'amor di Quello Che di bei fiori le convalli ammanta! Congregati alle miti aure d'un bello Mattin di maggio, in copia anzi la chiesa Ecco stan villanel con villanello. Ed ecco, il piede innoltran per la scesa Giovani donne, e nel tugurio resta L'avola antica alle faccende intesa. Ed il sacro Pastor move la festa, Guidando i parrocchiani in mezzo ai prati, E in mezzo a' campi e in mezzo alla foresta. Mirano con dolcezza i germogliati Frutti di quel terreno, e pel ricolto Litanïando invocano i Bëati; E il passegger da lunge dando ascolto Alla rustica prece, si commove, Ed anch'egli a pregar sentesi volto, E forse da mal opra indi si move. ~~~~~~~~~~ Udran certo la prece devota I Bëati che sono appo Dio; L'udrā l'Angel del bosco e del rio, L'udrā l'Angel del monte e del pian; E le debili umane parole Commutando in concento divino, Le alzeran fino all'Unico-Trino, E felice la messe otterran. Ma se pur le parole dell'uomo In concento divin commutate Al Signor non salissero grate, E vibrasse tremendo flagel, La preghiera che alzaro i credenti Infeconda giammai non si fora, Sempre i cor la preghiera migliora, Sempre l'uom riconcilia col ciel. E dopo l'anno in cui sole o procella Di frutti la campagna han desertato, Riedono i contadini in la novella Stagion di maggio al supplicare usato. Di sue peccata ognun castigo appella L'arsura o i nembi del trist'anno andato; Ognun con penitenza pių sincera Da Dio depreca tai sciagure, e spera. Venga a que' giorni il vate ed il pittore Sulla bella collina d'Eridāno, E contempli quel quadro incantatore Cui son limite l'alpi da lontano. Di bellezza uno spirito e d'amore Diffuso č lā sui monti, e lā sul piano, E qui sui poggi, e sui due fiumi, donde Accarezzan Taurin le amabil onde. Il vate ed il pittor vedrā un incanto; A sė bel quadro unirsi novo ancora: Escon le forosette in bianco ammanto Da diversi tuguri anzi all'aurora, Ed affrettano il passo al loco santo, Ove la campanetta suona l'or; Passar indi tra questo albero e quello Vedesi colla Croce il pio drappello. Pingetemi raggiante dall'Empiro Degli Angiol la Regina che sorride: Dicesi che talor nel sacro giro Delle Rogazïoni alcun lei vide; Dicesi che commossa dal sospiro Di quell'anime semplici a lei fide, Col divin Figlio i campi benedisse, Nč gragnuola per molti anni li afflisse. ~~~~~~~~~~ E belle son le supplici Pompe di penitenza in alto lutto, Quando da morbo orribile A gran terrore un popolo č condutto. Per alcun tempo attonite Portano le cittadi il flagel rio, Indi, poichč ogni provvida Arte inutile appar, volgonsi a Dio. Ed allor sorgon uomini Per eloquenza e santo cor sublimi, E con ardir magnanimo Rinfacciano lor colpe ai grandi e agl'imi. Della rampogna ridere Vorrėa il perverso, e giā il malor lo afferra: Jeri con vil tripudio Opprimea l'innocenza, oggi č sotterra. Prendon la Croce gli umili, E pių d'un giā superbo anche la prende, E il penitente cantico Da migliaia di cuori al cielo ascende. Religïon fortifica Gli animi che depressi avea paura, E quindi all'aer malefico Pių robusta resiste anco natura. Religïon le torbide Coscïenze deterge, indi le calma, E pių efficaci i farmachi Opran nell'uom, qualor pacata č l'alma. Accumular prodigii Potria certo il Signor, ma senza questi Pur con sue leggi solite Sana e protegge chi a ben far si desti. Il penitente popolo Dopo le preci meno ismorto riede, E pių costante esercita Sua caritā, perchč doppiata ha fede. ~~~~~~~~~~ Ed allor men sovente abbandonati Van gli egri da' famigli e da congiunti; E pių d'un egro che di duol perito Fora per l'abbandon, s'altri l'aiuta, Forze ritrova, e pių del morbo i dardi A lui non son mortiferi. In tal guisa Scema la strage a poco a poco, e cessa. Ah! in questi miseri anni Europa invasa Dall'indica per l'aer corrente lue, Quanta per ogni loco alzar dee lode A te, Religion! Dove i pių ardenti Soccorritori delle inferme turbe? Eran color che a beneficio spinti Venėan da fede! Eran le pie fanciulle Vincolate da voto a farsi ovunque Ancelle de' languenti! Eran dell'are Degni ministri! Erano illustri o scuri Concittadini che schernir solea La vigliacca empietā, perchč prostesi Sovente all'are onde traean virtude! E te fra tanti ardimentosi egregi, Ottogenario Vescovo, annovrava La nostra Cuneo dianzi, a' pių tremendi Lunghi giorni di morte e di spavento! Te col drappello de' tuoi forti amici Cingeano indarno gli ululi codardi, E i turpi esempli di color che aïta Negavano a' giacenti! Impallidėa, Ma per alta pietā, non per paura La vostra fronte, ed al pallor gentile Succedea sulle guance il nobil foco Della vergogna per l'altrui fiacchezza. E quando truce cova, e giā scoppiando Va in queste Taurinensi aure la lue, Chi a' bisogni provvede e rischi affronta, E sprona, e gare generose incėta? Alme prodi son desse, a cui ben nota Religion senno e costanza infonde! E fra tali, io con giubilo un amico Vidi primo scagliarsi all'ardue cure Che salvaron la patria; e fra i gagliardi Che il seguitavan, godo altri a me cari Scorgere e benedire, e vieppių amarli! ~~~~~~~~~~ Ma il dolor pur rammentiamo D'altre turbe supplicanti: Stirpe misera d'Adamo, Numerar chi puō tuoi pianti? ~~~~~~~~~~ Pių d'una volta Furon vedute Disperar quasi Della salute Assedïate Degne cittā. L'oste che i muri Ivi circonda; Desolō questa E quella sponda; Scevra si vanta D'ogni pietā. Pubbliche preci La Chiesa intima, Anzi agli altari Ciascun s'adėma, Indi procede Ignudo il pič. La mescolanza Del lor dolore, Del loro grido Al Salvatore, In tutti i petti Cresce la fč. Dopo la pompa Il capitano Ripon sull'elsa L'ardita mano, Ed ispirato Snuda l'acciar, ŦChi di voi sente ŧIddio con noi? ŧ--Tutti il sentiamo!ŧ Sclaman gli eroi. Apron le porte, Vanno a pugnar. Scossa, atterrita L'oste nemica, A ripulsarli Mal s'affatica; Giā si scompiglia, Si dā a fuggir. Mai non č, vinto Chi vincer crede: Negl'irrompenti, Opra la fede: Salva č la patria Presso a perir! ~~~~~~~~~~ Chi son que' feroci Che d'Asia partiti, Di tutto Occidente Percorrono i liti? Rapinan, devastano Campagne e cittā. Il lor capitano Č demone od uomo? Da niuna possanza Giammai non fu domo. Flagello di Dio Nomar ei si fa. Le Slaviche terre, Le terre Tedesche Sopportan sue stragi, Sue luride tresche; Le Gallie lo veggono Sovr'esse piombar. Ma il barbaro in mezzo Al sangue, alle prede Non gode, se Roma In polve non vede; Ed eccol dall'Alpi Furente calar. Qual possa di braccio Avria soffermato Chi tanto al suo ferro Giā, avea soggiogato? Qual gente dal Tevere Incontro gli vien? Un duce canuto, Magnanimo, forte, Non forte di schiere Datrici di morte; La sola sua fede Il guïda, il sostien. Quel duce vestiva D'Apostolo il manto; Portava in sue mani Il Re sempre Santo; E folto seguialo Pregante drappel. Ed Attila, fero Flagello di Dio, Innanzi agl'inermi Tremō, impallidėo, E disse: ŦNon voglio ŦPugnar contro il Ciel!ŧ Perchč retrocesse Con tanto spavento? Vid'ei nelle nubi Un vero portento, O tutto il prodigio Oproglisi in cor? Dicevano gli Unni Con rabida voce: ŦPer quale incantesmo ŧCi vinse la Croce?ŧ Ed Attila urlava: ŦFuggiamo il Signor!ŧ ~~~~~~~~~~ Ah! dolce siami ricordarmi ancora Processïoni d'altri cuori amanti, Volte a far sė ch'uom santamente mora; Allorquando a' fratelli doloranti Sovra il letto di morte vien portato Quel Dio che si commove a' nostri pianti. Brama la Chiesa intorno a sč adunato Stuolo di figli allora, ed indulgenza Materna a chi v'accorra ha pronunciato. Per le vie con sollecita frequenza Suona la nota squilla annunziatrice Di quel mister d'amore e sapienza. E giā la donnicciuola, osservatrice De' pii dettami, il suo lavor sospende, E prega per l'incognito infelice, E lascia l'officina, e il passo tende Con altri umili artieri al loco santo, E il cereo appo l'altar ciascuno accende. Ivi ad artieri e a donnicciuole accanto S'inginocchiano tai, che pių cortese Hanno il contegno e le sembianze e il manto. Il vario grado qui sparisce; intese Tutte quell'almo al Re del Ciel si stanno Che in man dell'uom dalla sua gloria scese. Sostegno quattro fidi ecco si fanno Al padiglion, sotto cui l'Ostia viene Riparatrice dell'eterno danno Escon del tempio, e in meste cantilene Salmeggiano il bel carme in che il Profeta Reo si chiamava, ed estollea sua spene. All'ansio mover della schiera č meta Il tetto di fratello o di sorella, Cui forse morte č giā da Dio decreta. E talor quell'afflitta anima in bella Giace magion, che al volgo ivi stupito Rammemoranza d'alte gioie appella. Allor pių d'un fra gl'infimi č colpito Dal sentir ch'č pur cosa egra e mortale Uomo a sorti sė splendide nodrito. E tra sč dice: ŦAi fortunati oh quale ŧStolta invidia portai, se tutti dee ŧInvolver duolo ed esterminio eguale!ŧ E mentre le atterrite alme plebee Il vil livor depongono, e commosse Pregan per lui che l'ultim'aure bee, Con dolcezza rammentan com'ei fosse Modesto in sua possanza, e come pure L'altrui miseria a pietā sempre il mosse. Ovver tristi rammentan le pressure Ch'oprate lunghi giorni ha il vïolento, Insultando degl'imi alle sventure. Lagrime versa quei di pentimento, E scorge di perdon raggio felice Entro al cor ricevendo il Sacramento: E a sč d'intorno mira e benedice La caritā di quella pia congrčga, Che i torti obblėa dell'alma peccatrice, E pel suo scampo sempiterno prega. ~~~~~~~~~~ Chi sė fredda laudar mente potrėa Sė del bello avversaria e del sublime, Che la potenza non ammiri ed ami Del gran mister? Mentre all'infermo č data Per patire o morir forza oltr'umana, Uno spirto di serii pensamenti E di mutua pietā gli astanti afferra; E ciascun dal palagio ov'oggi han regno Le dolorose infermitā e la morte, Riede a sue ricche sale, o al suo tugurio, Pių memore del cielo e pių benigno. Nč spettacol men alto č quando tragge Il Pan celeste al miserando letto Dell'indigenza. Fra lo stuol seguace Dell'adorabil visita divina, Donna s'annovra illustre e generosa, Ben conscia giā di luride scalee E di covili ov'han mendici albergo. Ed ella dietro al Salvatore ascende Alla povera stanza; e gentilmente Del suo splendido stato si vergogna, Ed aïtar tutti vorria gli afflitti. Egra giace una vedova, ed intorno Lagrimosi le stanno i figliuoletti Della fame dimentici, e accorati Sol perchč temon pe' materni giorni. Della Comunïon pur non vorrebbe Questa mirarli nel solenne istante; Pensar vorrebbe solo a Dio; ma gli occhi, Pensando a Dio, ricadon sovra i figli, E s'empiono di pianto.--ŦOh figli miei! ŦAll'infrenabil mio materno lutto ŧDeh non badate, e voi consoli Iddio! ŧA lui vi raccomando: ei padre ognora ŧFu de' pupilli derelitti; piena ŧFiducia abbiate in lui!ŧ Cosė l'inferma Geme ed abbraccia ad uno ad uno i cari; Poi, vinta dall'angoscia, obblia di nuovo La voluta fiducia, e per delirio. Lamentosa prorompe: ŦOh delle mie Viscere amati frutti! ov'č chi prenda Cura di voi, quand'io sarō sotterra? --Per mezzo mio li aiuterā il Signore!ŧ Dice l'illustre donna ivi prostrata; E s'alza, ed alla vedova giacente Le braccia stende, e al sen la stringe; e questa Effonde il core in voci alte di gioia, Dicendo: ŦIo moro consolata! a' figli ŦChe in terra lascio, resterā una madre!ŧ Io vidi, io stesso un giorno in mezzo a' campi Avvïarsi la visita d'Iddio A povera magion. Seguii la turba, Per l'infermo pregando, e quell'infermo Canuto essere intesi agricoltore Presso al centesim'anno. Ove giacea L'onorato vegliardo? In una stalla! A manca erano i buoi; spazio bastante Libero stava a destra, e un letticciuolo Ivi il padre capėa della famiglia. E in quella stalla il Creator del mondo Entra a soccorrer l'uomo! ad onorarlo! A nutrirlo di sč! tanto č il prodigio Dell'umiltā divina, o tanto agli occhi Del Crëator sublime cosa č l'uomo! Ah! ben desso č quel Dio che in una stalla Nascer degnava, e palesar che in pregio Gli era il mortal, non per potenza ed oro, Ma per l'umana sua nobil natura! Oh mirabile vista quel languente Che dal guancial la testa sollalzava, Bella per bianche chiome, e pel sorriso Della pace di Dio! mirabil vista L'atto in cui della debil creatura Cibo si fa il Signor! Chi non di dolce Stilla bagnate aver potea le ciglia, Ripetendo le preci?--E la pietosa, Ond'or parlai, che della vedov'egra L'oppresso spirto avea racconsolato, Non č del vate invenzion. Mi stava Quell'angelica donna appunto a fianco Or nella stalla del canuto. E quando Il Sacerdote retrocesse, allora Sorse l'egregia, e avvicinossi al letto, E favellō non so quai detti al vecchio, E nelle antiche palpebre io vedeva Gratitudin rifulgere e contento. ~~~~~~~~~~ Ma non cosė pacifiche Sempre si volgon l'ore Al figlio della polvere, Quando patisce e muore. Colui tre volte misero Che in suoi peccati č spento, Di cui la gente mormora: ŦNon ebbe il Sacramento!ŧ ~~~~~~~~~~ Assai meno, assai meno infelice Di chi muor senza luce d'ammenda Č colui che da legge tremenda Vien dannato a precoce morir! Fur gravissimi forse i delitti Che macchiaron la vita del tristo; Ma piangendoli a' piedi di Cristo, Spera in ciel perdonato salir. ~~~~~~~~~~ Ed anco a tal dannato a fera morte Religïon moltiplica sua cura: Ella sola al gran passo il rende forte, Che vinta da terror fora natura. Arrivato d'un tempio appo le porte Perchč il fermano? Oh ciel! che raffigura? Dall'altar mossa l'Ostia avvivatrice, Conforta ancor la vittima infelice. E la vittima piange benedetta L'ultima volta dal Signore in terra, E con pių vigoroso animo accetta La fune onde il carnefice la serra: Che č mai la morte al misero che aspetta Grazia colā, dove non č pių guerra? Ch'č mai la morte all'uom quaggių imprecato, Se Iddio gli dice in cor: ŦT'ho perdonato!ŧ ~~~~~~~~~~ Le varie pompe tutte Uopo non č che annovri il verso mio, Onde sovente addutte L'anime sono a rammentarsi Iddio, E onde abbelliti vanno Di vita il corso ed il postremo affanno. Io tutte v'amo, quante Istitüė la provvidente Chiesa Processïoni sante! Sol per la mente a basse cose intesa, Il senno dell'altare Non benefizio, ma stoltezza appare. Io v'amo, o pompe! ed amo Pur la pių mesta; quella in cui giacente Nel fčretro seguiamo Il simil nostro, che di nobil ente Sulla terra mutossi In carne data a' vermi e in poveri ossi. Oh commovente gara Il congregarsi ad onorar per via La sventurata bara! L'alzare ancora in fųnebre armonia Un voto pel fratello, Di cui le spoglie inghiottir dee l'avello. Soleasi a' dė lontani, Che barbari a ragion forse son detti, Ed in cui pur gli umani Portavan reverenza a' begli affetti, Soleasi da' congiunti Pianto sacrar, solenne a' lor defunti! Mutō la degna usanza, E quando un genitor serrato ha il ciglio, Pių intorno non gli avanza Nč la consorte, nč un diletto figlio: Decenza impone a questi Sgombrar lochi per morte oggi funesti. Ah! ben pių venerando Era a' tempi de' barbari il compianto Delle famiglie, quando I figliuoli mescean lagrime e canto, Venendo primi dietro All'orribile e in un caro ferčtro! Fretta mi par non pia Il fuggire un amato, appena e' muore; Il non voler qual sia Prova a lui dar di pubblico dolore: Ma ben č ver, che ascoso Pur gronda il pianto--e spesso č pių doglioso! Se quei che vincolati Son per sangue col morto, alla gemente Pompa non son restati, Folta dietro la bara č pur la gente: Misto al terror, v'č un forte Amor nell'uom per l'alta idea di morte. Chi vive puro, i grandi Proponimenti inforza a quella vista, E chi traea nefandi I giorni suoi, sogguarda e si contrista: D'ognuno a tal pensiero Scossa č la mente e richiamata al vero! ~~~~~~~~~~ Ma poichč il pių giulivo e il pių dolente Fra quanti riti a noi la Chiesa espone, Ha in sč di grazia spirto onnipossente, Che al cor favella ed a virtų dispone, Star giammai non si vegga ivi il credente Col vil sorriso che a bestemmia č sprone: Ne' templi e fuor de' templi ogni atto pio Puote e debbe nostr'alme alzare a Dio. V'amo, o pompe divine! e prego il Cielo Ch'io mora in patria ove sien usi santi, Ove alla tomba il mio corporeo velo Dato non sia da ignoti o da sprezzanti, Ma pochi amici con pietoso zelo Seguano la mia bara salmeggianti, E valga sė de' lor sospiri il merto, Che tosto siami il sommo regno aperto! I PARENTI. Deus enim honoravit patrem in filiis (_Eccli. c. _3_, v._ 3) Inno di gratitudine e d'amore Al Creator de' nostri cuori amanti, Di tutte meraviglie Creatore! Dacchč pel fallo prisco doloranti Alla luce veniam, qual dolci aïta Ne' genitorï č data a' nostri pianti! In ogni coppia umana, onde la vita D'altri umani si svolge, ecco una diva Pe' figiuoletti caritā infinita. Vedi la vergin titubante e priva D'ogni ardimento, simile a cervetta Che intorno guata, e de' perigli č schiva. Chi nella fievol, timida animetta Opra mutazione inaspettata, Quand'č fra il coro delle madri eletta? Di progenie d'Adamo al ciel chiamata, Grave č il sen della dianzi paventosa, E il pondo regge da dolor cruciata. Ed il porta con forza generosa! E dopo un figlio compro a tanto prezzo D'orrende angosce, altri portar pur osa! Oh di strazii mirabile disprezzo In creatura sė gentil, che solo Parea nata de' fiori al molle olezzo, Onde bëasse a lei d'intorno il suolo E le dolci aure col suo bel sorriso, E morisse alla prima ombra di duolo, Per destarsi felice in Paradiso. ~~~~~~~~~~ Vedi la donna col suo piccol nato, Che suggendole il seno a lei sorride: Sebben abbiale tanto egli costato, La madre da lui mai non si divide. Insazïata il guarda, insazïato Č il provveder ch'ei non s'affanni e gride: Animo lieto o da timore oppresso Nella veglia o nel sonno ha ognor per esso. Lo sposo benchč a lei caro cotanto, Č pių caro perch'ei pur ride al figlio; Sovente, favellando a lei d'accanto, S'avvede ch'ella e core e mente e ciglio Tien sovra il pargol con sė forte incanto, Che non ha udito il marital consiglio: Allora ei tace e mira, e con dolcezza Il lattante e la madre egli accarezza. Oh tristo il giorno, oh trista l'ora, quando Giace nella sua cuna egro il bambino, E la giovine madre sospirando Ad ogn'istante riede a lui vicino, E invan teneri detti prodigando Tien sulle amate labbra il petto chino, Ma l'offerta mammella ei bacia appena, E non la sugge, ed a vagir si sfrena! Oh con qual lutto miserando allora La spaventata si rivolge a Dio! Oh come al dubbio che il figliuol le mora Trema se in lei fu reo qualche desėo, E perdono dimanda, e s'infervora, Promettendo al Signor viver pių pio! I soli Angioli ponno anzi all'Eterno Sė ardente prego alzar, qual č il materno. Giorno di liete voci, ora felice, Quando sceman del pargolo i vagiti! Quand'ei cerca la dolce genitrice Con isguardi dal riso ingentiliti! Quand'ei di novo il caro latte elice, E scherzoso riprende i suoi garriti! Tai porge allor la madre inni d'amore, Quai mandar puō de' Serafini il core! ~~~~~~~~~~ Ov'alti rischi fervono, Vieppių la madre ardita Pel frutto di sue viscere Pronta č a donar la vita. Ella, se fera scoppïa Divoratrice vampa, Verso la cuna avventasi, E il pargoletto scampa. Se il picciol piede illusero Di cupo rio le sponde, La madre piomba rapida, E il tragge, o muor nell'onde. Ella, se il figlio palpita Tra infetto aere tremendo, Tenta i suoi dė redimere, Le piaghe a lui lambendo. Se patria e tetto invadono Empie, omicide squadre, Stringe i suoi figli, e impavida Pugna per lor la madre. ~~~~~~~~~~ Tal č la nobil donna ingigantita Dalla materna celestial possanza, Che a tutte generose opre la invita. Ma un sacrifizio v'č che ogni altro avanza, Ed č in lei quell'assidua ed operosa Sulla cara progenie vigilanza. Alma di buona madre pių non posa Finchč non ha ne' figli suoi destata Di virtų la favilla glorïosa. Nč puote alma di figlio esser pacata Fra inique gioie, se ha una madre ancora Che i vestigi di lui tremando guata, E occultamente prega, e s'addolora. ~~~~~~~~~~ Negli anni primieri Del forte maschietto, V'č mente selvaggia, V'č indocile affetto, Par ch'indi s'annunci Futur masnadier. La picciola belva Se alcun la minaccia, Vieppių baldanzosa Innalza la faccia; Di colpi, di rischi Non prende pensier. Qual č quello sguardo, Qual č quella voce Che frena l'audacia Del picciol feroce? Incanto sė dolce La donna sol ha. Ed ella ripete, Ripete l'incanto, Frammesce sorriso, Disdegno, compianto, E amore gl'infonde, Gl'infonde pietā. Non bada la saggia Se petti inumani Diran che a domarlo Suoi studi son vani; In cor d'una madre Speranza non muor. E quei che parea Futur masnadiero, S'infiamma del bello, S'infiamma del vero, Divien della patria Gentile decor. La madre č il primo dell'infanzia amore! Poi di ragione al dolce lampo i teneri Fanciulli aman la madre e il Crëatore! Sõave affetto sentono Pel padre, pe' fratelli e per le suore, Ma il lor pensier pių consolante ed ėntimo E quello ognor: la madre e il Crëatore! E tutti quasi del Vangelo i forti, Che con grand'opre od immortali pagine Pių ricchi di virtų sono al ciel sorti, Dal sen materno attinsero L'amor, l'ingegno e i nobili trasporti, E della madre caramente memori, Iddio amando, con lei sono al ciel sorti. Quale stupor, se pienamente spanta D'un diletto figliuolo entro lo spirito Alta fiamma si sia di madre santa? D'uomini gravi assidua Cura in noi del sapere i germi pianta, Ma niuna cura č guida al cor del giovine Come riso gentil di madre santa. In quello sguardo che posō primiero Sovra i nostri dolori e i nostri giubili, Č un poter che strascina a pio sentiero. Mille congiuran fāscini A pervertir di gioventų il pensiero, Ma in lagrime di madre, o nel suo tumulo Č un poter che ritragge a pio sentiero. Agostin dagli errori avvincolato, Udendo della madre i sacri gemiti, Bramava consolar quel core amato; Nel rimirarla, a palpiti Religïosi si sentėa spronato; Doppiō il desėo del ver, doppiō le indagini, E terse il pianto di quel core amato. Ne' giovani anni del Salesio santo, La madre, che il dovea da sč dividere, Un giorno mosse a lui solinga accanto: Sotto vetusta rovere In cima a giogo alpin fermata alquanto, L'opre di Dio mirando, esclamō: ŦFiglio! Pensa che quel gran Dio t'č sempre accanto!ŧ E gli parlō sė calde e generose Ricordanze dell'alta, unica gloria, Che Dio per meta all'uman viver pose, Che il giovin cor rifulgere Vide al suo sguardo le celesti cose, E il dir materno in lui restō indelebile, E saldo il pič pel cammin arduo pose. ~~~~~~~~~~ Ma di veri ed opposti elementi Vien temprata dell'uom la saggezza: Ei bisogno ha di freno e dolcezza, Ei bisogno ha di forza e d'ardir. Troppo i figli addolcir prolungata Indulgenza di madre potrėa; Ne' lor cuori animosa energėa Ogni padre č chiamato a nodrir. Della madre il söave sembiante Il bambino con gioia mirando Brameria riprodurre quel blando Elegante sentir femminil. Ed insiem nel mirar si compiace Pių severi del padre gli sguardi; In sč brama gli spirti gagliardi Che pių bella fan l'indol viril. Grazie, amabile Ingegno divino, Che, in donarci i duo cari parenti, Vuoi che sorga gentil nelle menti Armonia di contrarie virtų! Tutti grazie a te rendano i figli Che gustār de' parenti l'amore! Ed ai mesti orfanelli, o Signore, Notte e dė padre e madre sii tu! ~~~~~~~~~~ Quanta in un padre e in una madre splende Luce emanata dall'Eterno Iddio! D'affetto pari al lor niun cor s'accende. A' genitori miei come poss'io Render le gioie prodigate e il pianto, E gli esempi, e i consigli, e il pregar pio? Troppo sovente immemor fui del santo Senno che ad essi per me il Ciel largiva, E baldanzoso i lor dettami ho franto. Ma se per vie superbe io mi smarriva, Cercando il ben dove il Signor nol pose, E di mondani sapïenza ambiva, Quai salutari spine a me le cose Pur rimanean, cui giā m'aveano impresse L'anime de' parenti generose; E contento io non era nelle stesse Pių inebbrïanti glorie che il mio orgoglio E l'altrui vanitā crëato avesse. Inestirpabil resta il buon germoglio A que' dolci, infantili anni piantato, In cui d'alta malizia il cuore č spoglio. Io m'avvolgea tra dubbi, e innamorato Pur mi sentėa secretamente ognora Di quell'Iddio ne' primi dė invocato. E quando il Sol gli oggetti ricolora, Ed ammirandol poscia al suo tramonto, E nottetempo udendo batter l'ora, E in mille di que' casi in cui pių pronto Fassi a grave sentir l'intendimento, Sė che in lui nasce d'alte idee confronto, Mi sovvenėa con dolce incantamento La caritā del padre, e di colei Dal cui seno ebbi vita ed alimento; E allor tornava sovra i labbri miei Irresistibil uopo di preghiera, E i miei delirii m'appariano rei. Nel ricordar la madre, un fascino era Che quasi mal mio grado m'attraea Alla credenza e all'amistā primiera, E della madre ai templi indi io riedea! ~~~~~~~~~~ O padri! o genitrici! il pių efficace V'č dato minister sovra la terra: Da voi pende de' figli la verace Intima calma, o la perpetua guerra. Sentir non basta natural dolcezza A' cari vezzi di crescente prole; Non basta ch'uomo obblii truce fierezza, Come nel suo deserto il leon suole Quando sul leoncel ch'egli accarezza Spiegar le insanguinate ugne non vuole; Non basta ch'uom de' figli suoi le strida Tolleri, aïzzi, e i giochi lor divida. Non basta ch'ei, mentre con essi scherza, Pur li brami al suo cenno obbedienti, E talor pigli l'esecrata sferza A domar le pių irose audaci menti. Uop'č che padri e madri abbian sublime Conoscimento dell'ufficio loro, E le impronte, che i figli accolgon prime, Sien d'amor, d'innocenza e di decoro. Uop'č che i genitor la prole estime, Perchč non da piaceri o sete d'oro O bassa invidia spinti unqua li miri, Ma da pii, generosi, alti desiri. Gemer che val che nostra etā sia guasta? Che abbondin tradimenti e fratricidii? Che del dubbiar l'orribile cerasta Strazii le menti e tragga a' suicidii? Al torrente de' vizi argin chi pone, Se mal la patria a' figli suoi provvede? Se de' fanciulli il cor non si dispone Da' genitori ad alti sensi e fede? Se il giovine schernir religïone, O simularla da' canuti vede? Perchč t'onorerā, padre, il tuo figlio, Se in te virtų mai non brillō al suo ciglio? Sia maledetta la progenie ingrata Ch'alza sul genitor risa di scherno! Mal s'affanni di giubilo assetata, E nell'alma sua vil regni l'inferno! Ma al par de' figli iniqui e irreverenti, Voi sommamente sciagurati e abbietti, Che versate negli animi innocenti Mortifero velen con opre e detti! Vita lor deste, e por li avete spenti! Da Dio li avete, e contro a Dio concetti! Prodotto avete per l'etā future! Germi rei di pių ree progeniture! Bella č di colta civiltā la luce, Che assai chimere d'ignoranza espelle! Ma se spoglia č di fč, non altro adduce Ch'arti affinate in basse anime felle. ~~~~~~~~~~ Altera iva, giā tempo, i suoi tesori Di ricchezza e di fama e di possanza Roma pregiando, e sebben tocche avesse L'ignee quadrella di sventura, e sommo Pių sulla terra il cenno suo non fosse, Ancor a sč dicea: ŦLa invitta io sono! ŧL'accenditrice della sacra fiamma ŧDel saper nelle genti! e indarno lutta ŧContra il mio genio di barbarie il genio!ŧ Ma venne il dė che la cittā del mondo Fremebonda languendo in crudo assedio, Prevedea suo sterminio ed il trionfo Della barbarie propugnata e sparsa Dal valente Alarico. Una Sibilla Nel roman Foro passeggiava irata, Cinta da cittadini; e se speranza Fosse di gloria le chiedean coloro, E richiedeano con affanno.--Ed ella Con disprezzo miravali, e taceva, E passeggiava irata, e i dardeggianti Sguardi della divina alto terrore Nella plebe infondeano. E poichč sempre Insisteano le turbe a interrogarla Sovra i destini della patria, il riso Amaro del disprezzo in furor santo Volse; e, strappato dalle grigie chiome Il vel, la fronte colla destra palma Si percosse tre volte, e a' suoi pensieri ŦUscite!ŧ disse,--e uscirono tremendi! ŦVaticinio d'obbrobrio e di morte ŧAll'iniqua Regina del mondo! ŧSette giorni; e poi veggo giocondo ŧQui sue fiamme Alarico gettar! ŧIn tre parti ecco Roma divisa: ŧUn'intera, altra mezzo abbattuta; ŧLa maggiore ecco fumiga muta ŧSovra l'ossa che un dė l'abitārŧ. ~~~~~~~~~~ Dell'antica Sibilla al disperante Grido colpiti di spavento, alzaro Miserevol lagnanza i cittadini, E a lei diceano, e al cielo: ŦOnde su noi, ŧOnde su figli cosė orrendo fato?ŧ Guardolli la inspirata, e lungamente Tacque fremendo, indi il silenzio ruppe: ~~~~~~~~~~ ŦOnde mova sė fera condanna, ŧO perversa d'eroi discendenza! ŧPių da voi di virtų la credenza ŧA' figliuoli trasmessa non fu! ŧNon v'č popol che piombi in rovina, ŧSe non dove s'innalzi tal prole ŧChe non sa, che non puō, che non vuole ŧFuorchč oltraggio ed obblio di virtų!ŧ E vinse Alarico, E in fiamme andō Roma, E tutti la stirpe Latina fu doma! E invan quegli oppressi Dell'Itala terra Dicean: ŦFummo grandi ŧIn pace ed in guerra!ŧ Disgiunte da forza Di mente e di cor, Le voci orgogliose Schernėa il vincitor. E fama narra che la pia Sibilla Per le italiche sponde ramingando, Molle sovente avesse la pupilla Sui rei trionfi dell'estranio brando: Chiesta venėa talor se una favilla Prevedesse di scampo, e come, e quando; Ed allor rispondea pių corrucciata: ŦStirpe forse vegg'io dal fango alzata?ŧ Inteneriasi poscia, ed agli afflitti ŦLuce, dicea, non fulge or di speranza! ŧMa da viltā cessate e da delitti, ŧE crescete ad onor la figliuolanza. ŧA nulla giova favellar di dritti, ŧE gli avi rammentar con gran burbanza: ŧD'ammendati parenti all'opre sole ŧPuote ribenedetta andar la proleŧ. Ma i pių ascoltavan, e movean la testa, E tenean la fatidica per pazza; E lungh'anni durō la ria tempesta Degl'invasori sull'iniqua razza. Tutta convenne tracannar la infesta Di servitų e d'obbrobrio amara tazza; Sepolta andonne civiltā, e con pena Dopo secoli ancor ripigliō lena. ~~~~~~~~~~ Manda, o Signor, lo spiro tuo possente Ne' padri che al mio tempo han la tutela Della patria speranza adolescente! Quanto sia gran tesoro ad essi svela Un'affidata nova alma immortale, Cui tanti move assalti corruttela. In padri e genitrici un'ansia eguale Desta sė, che ne' figli i pensier santi La possa degli esempi non affrale! La madre allor ne' dolci cuori pianti Profonda e pia di bell'amor semenza Per tutte l'opre ad alta fč guidanti; E il genitor protegga, la innocenza, E la scorti, e la eserciti, e la inforzi Contr'ogni non vitale, empia, scienza. Caldo zelo ad estinguer non si sforzi La nobil vigoria de' giovani anni, Ma pïamente il fidar troppo ammorzi, Sė che delle inesperte anime i vanni Luce, lontan dal vero Sol, cercando, Non si perdan nel vuoto e negl'inganni. A due falli i parenti omai dian bando: Uno č il vano agognar che tutto a' figli Nell'odïerna etā paja esecrando. I sempre spaventosi, irti consigli Ispiran diffidenza, e ciechi allora Vieppių s'avventan quelli entro a' perigli. E l'altro fallo č pių funesto ancora: Quello di chi, spregiando i tempi andati, Del novo senno tutti i vanti adora, E dall'are tue sante illuminati Non gli cale, o Signor, che i figli sieno, Ma li spera da orgoglio sublimati. Lode a filosofia, ma quando in seno Porta umiltā ed amor; quando a' suoi voli Tuo infallibil Vangelo č guida e freno! Altro lume non fia che mai consoli, Ed appuri, ed innalzi umani cuori, E per cui nelle vie de' lor figliuoli Gloria acquistino e pace i genitori! ~~~~~~~~~~ Non v'č patria felice, se a Dio Consecrate non son le famiglie; A' parenti, a' garzoni ed a figlie Solo vincolo egregio č la Fč. Dove cresce magnanima stirpe, Talor anco sventura la preme, Ma non pere, non crolla, non teme Il Signor della forza ha con sč! I SANTUARII. Et induxit eos in montem sanctificationis suae. (_Ps._ 77). Infelice colui che ignobilmente Mira natura e le bell'opre umane, Ed allor pių s'estima alto-veggente Che pių freddo e schernevol si rimane! Quant'evvi di sublime e d'innocente Gli par macchiato di bruttezze strane: Per le spine la rosa gli par truce, E, perchč il Sole avvampa, odia la luce. No, non č tal la veritā, ma ad onta Delle sue spine amabile č la rosa, E l'alma luce immense gioie impronta, Benchč talor dardeggi anco dannosa; E il passegger che faticando monta, Pago sovra le balze indi si posa; E benchč abbondin gli empi in sulla terra, Frode non č per ogni dove o guerra. L'ipocrita, ahi! s'accosta anco all'altare, Ma i non infinti quell'altar migliora: Ogni spirito umano, alto o volgare, Pervertesi dal dė che pių non ōra; Ed in ogni uso della Chiesa appare Celeste senso che a virtute incuora. Chi d'amor sante preci insania crede, Quai vuol foggiarle, e non quai son, le vede. Voi pur, voi pur siete di scherno oggetto, Famosi Santuarii, ove i credenti Peregrinando anelan con diletto, Sebben plebee taluni abbian le menti. Menti han plebee, ma candido l'affetto, E l'esempio commun li fa pių ardenti. O Santuarii, abbiatevi il mio canto: Io ne' delųbri di Varallo ho pianto! Tutelare di Sesia Angiol gentile, Come nobile e vaga č tua vallea! Qual v'ha Meandro all'acque tue simile? Qual altra auretta i cor tanto ricrea? E come, fuor del consüeto stile, Qui il villanel di belle arti si bea! Qui leggiadri pittori ebbero cuna, E lor opre Varallo in copia aduna. Ma pių di tutti i Varallensi egregio Di virtų per la forte orma stampata Fu il buon Caüno ch'or sull'are ha pregio, Ei che alla valle nova gloria ha data, Ei che v'aggiunse cosė fregio a fregio, Che da' secoli andasse indi ammirata. Umil cappuccio lo coprėa, ma ardente D'alti pensier gli rifulgea la mente. Caïmo giovin mosse in Terra Santa, Poi tornō pien di rimembranze il core, Ed ambėa che sua terra tutta quanta Innalzasse le brame al Crëatore; Ed era di color, cui non va infranta La volontā da inciampi o da timore. Ardüissima cosa immaginossi, La predicō, la volle, e gridō: ŦPuossi!ŧ ŧPuossi, gridō, glorificare Iddio, ŧA questi lochi eccelso lustro dando. ŧErgasi un Santuario in un sė pio, ŧE sė per inclit'opere ammirando, ŧChe inviti pure il miscredente e il rio, ŧI quai vengan da pria maravigliando, ŧPoscia vinti si sentan dall'incanto ŧDel Bel, del Ver, del sommamente Santo. ŧPuossi! e tristo colui che m'opporrebbe ŧChe opulenta non č questa convalle! ŧDal voler forte ognor la forza crebbe, ŧE le ben chieste grazie il Signor dālle. ŧPių costante di noi popol non v'ebbe, ŧZelo non fia ch'indi all'impresa falle: ŧDiam chi l'or, chi le braccia, e chi lo ingegno, ŧE di Dio monumento alzerem degnoŧ. In tal guisa ispirato predicava Il reduce da' liti Palestini, E col robusto dir comunicava Negli altrui cor suoi palpiti divini. Universale un plauso s'elevava Primamente da' borghi pių vicini, Poi rapido quel plauso si diffonde Pur tra fedeli di lontane sponde. E quasi per prodigio ecco tant'oro, E tanti chiari spirti, e tante braccia Moltiplicarsi e gareggiar fra loro Sė che novo Sïonne ivi si faccia. Non manca all'alta impresa alcun decoro; L'aspra montagna trasmutato ha faccia; Magnifico cammin fra ombrose piante Guida a esimii delųbri il vïandante. Ascendendo quell'erta, evvi un mistero Tal nel loco e nell'aer, che pria che giunga A' consecrati muri il passeggero, Forz'č che preghi, ed ami, e si compunga. Vista non v'ha che noi ritragga al vero, Che dal mondo fallace nol disgiunga, Tanto, dovunque ei volga la pupilla, Del Crëator la mãestā gli brilla. Quanto pių progredisci alla salita, Tanto pių ti stupiscon da ogni parte Quel bosco lā della vallea romita: Lā le fumanti capannette sparte; Lā un torrente fra scogli che s'irrėta, E mormorando e spumeggiando parte; E colā un altro che sue rapid'onde Rotola verso il piano, e in lui s'infonde. Qui il ciel sovente č limpido zaffiro, E spande fulgidissima la luce, Poscia improvvisa lā sui gioghi io miro Nube che tuoni e fulmini conduce, E ne' rami degli alberi uno spiro Freme di vento, or lusingante, or truce, E in tutte quelle cose č un'armonia Che scuote l'alma ed al Signor l'avvia. Venėa meco Tancredi, ed ammutiti Or contemplando questo, or quell'obbietto, Pių gioïvam perchč fra noi partiti Sensi cotanti d'intimo diletto Scorger ne fean quanto da Dio forniti D'unanime eravam mente ed affetto: Tacean le lingue, ma l'alterno sguardo Il söave dicea sentir gagliardo. Pių oltre i passi producemmo, e alfine I delųbri toccammo desïati: Su ciascun di essi vaghe ombre son chine D'olmi vetusti, sotto a cui posati Giā si son peregrini e peregrine, Ora in polve dispersi ed ignorati. Quanti, com'io, veduto han queste rive! Tutti son morti, e quella ombra sorvive! Il pio silenzio di tai sedi appella A veridici e gravi pensamenti. Scende sul cor rimorso, e lo flagella, Ma speme santa mitiga i tormenti. Scerne l'uom ch'ogni vita si scancella, Quasi che gli anni suoi fosser momenti, E invaso allor da salutar terrore, S'umilia, e invoca, e trova il Redentore. Oh! chi d'uopo non ha di chi il redima? Qual adulto vivente č immacolato? Chi non desėa tornar ciō che fu prima, Quando non era ad empietā varcato? E chi fia mai che irreverente imprima In Santuario i piedi, ove adorato Mirasi quanto, sceso in terra Iddio, Per redimerci tutti, oprō e patėo? No, qui nulla č volgar, nulla č concetto Di scempi ingegni! tutto č sapïenza! Rider vorrėa l'incredulo intelletto, E falla qui a lui stesso la impudenza: Qui riconoscer debbe ei con dispetto Esservi un Bel che sforza a reverenza: Istorïate scene del Vangelo Han qui una voce che rammenta il Cielo. Di Varallo i sacelli adorni sono Di cento effigie di gentil lavoro: Ed una v'ha che par d'angioli un dono, Cotanto pinge di Maria il martoro! Di Maria, che in orribile abbandono Indicibil, divin serba decoro, Di Maria che, abbracciando il morto Figlio, Frena le amare lagrime in sul ciglio! Fra gli sparsi tempietti si divelle, Qual tra la prole sua la genitrice, Qual magnifica luna infra le stelle, Sommo Tempio che al loco appien s'addice. Egli č sacro a Maria, che fra le belle Schiere de' cherubin sorge felice, E dir sembra a' mortali:--ŦOh figli miei! Meco voi tutti alzare in ciel vorrei!ŧ Non fulge dė, non fulge ora del giorno, Che sul monte preganti alme non meni. Sono pii villanelli del contorno Che invocan messi a' patrii lor terreni; Sono un padre sanato, e a lui d'intorno I figli suoi di gratitudin pieni; Son donne antiche e vergini montane Vestite a fogge in un leggiadre e strane. E queste e quelli, a varii gruppi onesti, Van ramingando qua e lā pel monte. Mormoran preci, e i rai tengon modesti, Ed in ogni sacel chinan la fronte, E pių si ferman dolcemente mesti Dove San Carlo ha sue pedate impronte; E sotto voce ai figli il genitore Le virtų narra di quel gran Pastore. Poscia ciascun pur lā s'arresta molto, Dove il fulcro d'un letto anco si vede: Il letto fu di Carlo! Ivi quel volto Dormė e vegliō quando a lodar la fede De' Varallensi a lor si fu rivolto Dalla Lombarda glorïosa sede. Oh reliquia onorata! oh quanti ispira Di pietā desiderii in chi la mira! E colā presso, d'un pių antico Santo Venerevole avanzo č custodito: Un teschio egli č! Chi di facondia incanto Effuse da quel teschio ora ammutito? E chi da quelle or vote occhiaie ha pianto? Chi cogli sguardi i cuori indi ha colpito? Caïmo fu! quel forte che volea, Ed all'opre ardüissime impellea! Adorator de' secoli vetusti No, non son io: so che barbarie assai Contro a' fiacchi porgeva arme agl'ingiusti, E alle vendette succedean pių guai: Ma sfavillar pur si vedean tai giusti, Che d'obblio non saran preda giammai: Del secol lor vinceano il genio tristo, L'alme träendo a caritate e a Cristo. Onore a nostra etā per fatti egregi, Ma non per la calunnia e pel sogghigno, Con che vorriansi vilipesi i pregi Di chi fra rozzi oprō saggio e benigno! Ogni secolo ha menti onde si fregi; Ogni secolo impulsi ha dal maligno: Ah! in ogni etā da' cuori ingentiliti Abbiansi laude gli atti a Dio graditi! A Dio graditi certo erano e sono D'alta religïon que' monumenti, Ov'ansio d'impetrar pace e perdono Tutti elčva il mortal suoi sentimenti; Ove chi pių fu sotto i vizi prono, Talor pių sorge, e move a' begli intenti; Ove color che giā inimici furo, Si rïabbraccian con fraterno giuro. Ah! tutto ciō che alle passato sorti De' natii ne congiunge amati liti, Č quasi suon di glorïosi morti, Che di virtų civil ne drizza inviti; E ben di patrio amor vincoli forti Son quindi i Templi e i Santuarii avėti; Ed ogni buon lā grandi lumi scerne, Pregando ove pregār l'alme paterne. LE PASSIONI. Gustate et videte quoniam suavis est Dominus. (_Ps._ 39. 9). Dov'č mia gioventų? Dove i bëati Anni d'amor, del Rodano appo l'onde? Dove il ritorno a' miei dolci penati, E mia stanza alle Insųbri aure gioconde Dove in Milano i glorïosi vati Che mi cingean dell'apollinea fronde? Dove mia gloria alle applaudite scene? E poi dove il decennio infra catene? Io di carcere usciva egro, e piangendo Il mio buon Federico e gli altri cari, Cui dato ancor da quel recinto orrendo Rieder non era ai desïati lari: Poscia esultava, Italia rivedendo, Ed alfin temperando i giorni amari Fra gli amplessi de' miei sacri canuti, Per me sė lungamente in duol vissuti. E omai da un lustro tutto ciō trascorse! E nuovi plausi a me la patria diede, E di nuovi Aristarchi ira mi morse, E dė nuovi propizi ebbe la fede, E nuova infanzia a me d'intorno sorse, E di morte vid'io novelle prede, E ŦVana cosa č questo mondo!ŧ esclamo, E separarmen voglio--ed ancor l'amo! L'amo perch'alme vi trovai fraterne, Che all'alma mia s'avvinser dolcemente, E diviser mie gioie, e nell'alterne Pene collacrimār sinceramente: E v'ha tali amistā che fično eterne, Benchč tessute in questa ombra fuggente, Benchč tessute ov'ogni nobil core S'apre appena a virtų, lampeggia e muore. Degg'io, poss'io da tutte cose amate Divellere una volta il mio pensiero? Io, le cui sorti furono esaltate Da tanto lutto e tanto gaudio vero! Io, le cui rimembranze innamorate Han su mia fantasia cotanto impero! Io, cui balzar fa sin talora il petto Vista di leve, inanimato oggetto! Reduce a' lidi miei, dopo che giacqui Sepolto vivo per sė cupe notti, Agli affetti pių teneri compiacqui Che la sventura non avea interrotti; Nč agli estinti carissimi pur tacqui Culto di preci e di sospir dirotti; Indi a rivisitar presi le antiche Pagine ch'ebbi a dolce veglia amiche. E sovente su libri polverosi La man vo riponendo tremebonda, Ed apro, e parmi a' giorni studïosi Tornar di giovinezza, e il pianto gronda! E trovo i segni che ne' libri io posi, Ove con mente mi fermai profonda, Ove ad alti pensier d'amato autore Commento fei di veritā o d'errore. Pur con sensi diversi or vi rimiro, O libri tanto amati a' dė primieri: Vate son io, ma spento č in me il desiro Di prostrarmi idolatra anzi agli Omeri. Se volgendo lor carte ancor sospiro, Magėa non č de' grandi lor pensieri: Pių d'un libro m'č caro, e pure in esso Di rado cerco lui; cerco me stesso. E non sol me vi cerco: alla memoria Del me passato aggiugnesi indivisa Di palpiti d'amor söave istoria, Quando un'egregia m'infiammava in guisa, Ch'io per lei sola ambėa pietate e gloria, Ch'io sempre in lei tenea l'anima fisa, Che d'un sorriso suo per farmi degno, Sempre agognava ingentilir lo ingegno! E se pio talor fui, pregio egli č stato Di quella generosa animatrice: Era ad essa straniero il forsennato Foco d'amor che mi rendea infelice; Ma compatėa mie pene, ed elevato Volea il mio spirto, e lo volea felice, Ed allor che pių insano io le parea, S'affannava, e garrivami, e piangea. Quella donna, onde il bel, nobile viso Polvere č da molt'anni, e l'alma in Dio, Non disamai, benchč da lei diviso, E onorerolla tutto il viver mio: Ma nuovi poscia affetti han me conquiso, E quel primiero ardor s'intiepidėo: Quel ch'era in me un incendio, č una favilla Che come lampa ad un sepolcro brilla. Senza obblïar la giā cotanto amata, Altra ammirai ch'or dipartita č anch'essa; E in me virtų credendo io sublimata Per averla a sė bello angiol commessa, L'anima mia da orgoglio inebbrïata Vana si fea di lungo ben promessa: Giorni d'alto dolor mi mosser guerra, E a lei pur venni tolto, ed č sotterra! Sete d'amor, sete di studi, e sete D'innalzar sopra il volgo il nome mio, Gran tempo mi rapėan sonno e quiete, Nč scerno se ammendato oggi son io: Tu che del cor le lātebre secrete Solo ravvisi e mondar puoi, gran Dio, Pietā di me che tanto sempre amai, E sino a te l'amor non sollevai! Tante cose sfumarono al mio sguardo, E tutto giorno sfumar altre io miro! Valga d'esperïenza il raggio tardo, In che forzatamente oggi m'aggiro, Ad oprar alfin sė, che pių gagliardo A tua bellezza s'erga il mio desiro, E nulla tanto da' mortali io brami, Quanto ch'ognun tuoi pregi scorga ed ami! La legge tua non č d'irto rigore, Sol le idolatre passïoni abborri: Lunge che a te dispiaccia amante cuore, Ad un cuor fatto gel pių non accorri. Tu vuoi che a' miei fratelli io con ardore Cosė soccorra, come a me soccorri: Tu vuoi che in forte guisa il bello io senta, Tu vuoi che al giusto il plauso mio consenta. Tu doni a' figli tuoi mente e parola, Non perchč il dono tuo venga sepolto; Tu non imprechi investigante scuola Su non vietato ver fra l'ombre avvolto: In odio a te l'indagin empia č sola Che contra il cenno tuo l'ardire ha volto: Tu gl'ignari del mal chiami felici, Ma il veggente non reo pur benedici. Tu che sei tutto amor, la sacra stampa Della natura tua nell'uomo imprimi: Gagliardo sprone e inestinguibil lampa Tu sei di tutti aneliti sublimi. Tu godi quindi se il mio spirto avvampa Per que' tuoi fidi che in virtų son primi: Tu godi se fra lor taluni eleggo, E nel lor santo oprar meglio ti veggo. A me tu dato hai queste fiamme ardenti, Con cui desėo de' petti amici il bene, E con cui studïando i tuoi portenti Traggo esultanza, e di capirti ho spene: Cosė caldo sentir pių non diventi Esca giammai di vanitā terrene: Mie passïoni in guisa tal governa, Che lode sično a tua saggezza eterna. Sempre le temo, e sempre sento ancora Che in amar altre cose io troppo m'amo: Cieca errō mia bollente alma sinora, E presa fu di sua superbia all'amo. Distruggi il suo sentire, o lei migliora; O vil torpore, od amor santo io bramo: Ah no, non vil torpor, dammi amor santo, Tu che le tue fatture ami cotanto! I SECOLI. Militia est vita hominis super terram. (_Job._ 7). Vidi un'etā delle sue forze altera, E questa rifulgea dal greco lido: Superava i famosi Secoli che brillār per altre sponde; Ed oltre ad immortal virtų guerriera, Sparsa per Asia d'Alessandro al grido, La irruzïon de' ladri generosi Impromettea alle genti fremebonde Sotto a' vincenti brandi Novi di civiltā raggi ammirandi. Voce per ogni parte era d'Achivi: ŦNoi chiama Giove a illuminar la terra! Al nostro Omer, ch'č luce Prima alle menti, succedean tai vati, Onde a fiotti emanār del bello i rivi; E, perchč il sommo Bel tutti rinserra Sensi gentili e sapïenza adduce, Gli Apelle e i Fidia in queste aure son nati, E Plato e gli altri mille, Che poste ne' misteri han le pupilleŧ. ~~~~~~~~~~ Gloria, sė, coronō le Achee pendici; Ma del grande Alessandro il trono cadde, E le barbare genti Contro il superbo eroe mosse a disdegno Dell'alto crollo si stimār felici; Poi d'arti e di saver Grecia decadde, Sė ch'alle scuole sue contraddicenti Chi recava di lumi avido ingegno, Sol v'imparava come Darsi del ver possa a menzogna il nome. Vidi un'etā delle sue forze altera, E sfavillava questa in Campidoglio; Scherniva i preceduti Secoli, che dall'uom sommi fur detti. Tutto cedeva all'aquila guerriera Che ad ogni eccelsa meta ergea l'orgoglio. Sul Tebro convenėan co' lor tributi Della terra i pių splendidi intelletti, Ogni altro core umano Dovea spezzarsi o diventar Romano. ~~~~~~~~~~ Latina voce in tutte aure s'udėa: ŦNoi siam chiamati a spegner l'ignoranza Che dagli antichi tempi Le varie schiatte de' parlanti regge; Noi soli alzar possiam tal monarchėa Che abbracci il mondo e il forzi a fratellanza, Che per ogni contrada atterri gli empi, Che in loco di furor ponga la legge; Filosofia fanciulla Vagė sinor, noi la traggiam di cullaŧ. Gloria brillō sul Tebro incomparata; Ma i gagliardi imperanti all'universo D'onor si dispogliaro, E dier lo scettro a destre parricide: La immensa monarchia fu lacerata, E da' suoi prodi eserciti converso Contro agli Augusti suoi venne l'acciaro, E pių stolto di pria l'orbe si vide: Gara di colti e rozzi Furon morte, perfidia e gaudii sozzi. ~~~~~~~~~~ Vidi un'etā delle sue forze altera, E dava di sč mostra in varie sedi: I popoli che oppressi Avea di Roma il gigantesco ardire, Veggendo vacillar l'alta guerriera, Di sue virtų si dissero gli eredi: Fiato alle trombe in venti regni diessi, E tutti ardendo di terribili ire Giurār pei nobili avi Che a Roma guasta non sarėano schiavi. Voce sonō di barbare coorti: ŦNoi chiama il cielo a restaurar giustizia, Chč ne mentė il Romano Impromettendo civiltā e diritti; De' mortali tradite eran le sorti Per satollar di pochi l'avarizia; Tutti scettri afferrar non de' una mano; Tutti i popoli denno essere invitti! Oggi infiacchisce Roma, Si punisca, a lei spetta oggi esser doma!ŧ ~~~~~~~~~~ Gloria sorrise a' Vandali ed a' Goti, Ma fu gloria di spirti usi a furore: Distrussero un Impero Che ad un sol giogo i popoli astringea, E ferrei gioghi imposero a' nepoti: De' vizi inorridirono al fetore, Onde il Tebro appestava il mondo intero; Ma gentilezza insiem credetter rea, E contro a lei pugnando Disonorār l'insuperato brando. Vidi un'etā delle sue forze altera, E dič prima in Sïonne il maggior raggio: Fu virtų combattuta Sotto Romani e Barbari, e s'estese, Non per astuzia o gagliardėa guerriera, Ma per novo in patir, santo coraggio. Fra dileggi e patiboli cresciuta, Perdonando a' carnefici, li prese: Scandalezzava in pria, Poi volgari ed eccelse alme rapėa. ~~~~~~~~~~ Voce allor di Cristiani empė le terre: ŦNoi Dio sospinge a debellar gli errori! Finor saggezza umana Tentō regger le sorti, e fu delirio: L'uom dalle colpe č dissennato, e scerre Non puō di veritā gli alti splendori, Se da superbia il cor non allontana, Se nol consacra ad umiltā e martirio. Or che la Croce splende, A vera civiltā l'uomo trascendeŧ. Gloria inaudita a' battezzati fulse, E perocchč d'Iddio quest'era l'opra, Se fidi al suo Vangelo Fosser vissuti i popoli redenti, State sarian tutte ingiustizie espulse. Sātana accinto a volger sottossopra La indestruttibil via che guida al cielo, Seminō scismi ed odio infra i credenti; Onta il fellon ne colse, Ma pure in novi lutti il mondo avvolse. ~~~~~~~~~~ Vidi un'etā delle sue forze altera: Il successor di Piero e Carlo Magno Destra si dier fraterna, Come agli antichi dė Mosč ed Aronne, Sė che il Monarca a sua virtų guerriera Visibilmente avesse Iddio compagno: Cosė doppiata la possanza alterna, Frenaro il vizio e umanitā esultonne: Parea che mai contesa Pių nascer non potrėa fra Trono e Chiesa. Voce allor si levō d'Itali e Franchi: ŦL'atterrata da' barbari č risorta Imperïal tutela, Ed or che dagli altari č benedetta, Fia che i mortali a civiltā n'affranchi. Or ogni studio a sapïenza č scorta, Tutti or nobilitar la legge anela, Bandire anela schiavitų e vendetta: La prima volta č questa Che il trionfo del ver pių non s'arresta!ŧ ~~~~~~~~~~ Gloria abbellė di Carlo Magno i fatti, Ma sceso nel sepolcro, ebbe seguaci Di men gagliardo ingegno: Trono e Chiesa s'urtār, si combattero, E da scandalo uscėr follie e misfatti: Nocquero a veritā studi fallaci, Cittā e castella fur nemiche al regno; Libero sir divenne il masnadiero; E, franti i gioghi spesso, Piansene il popol da licenza oppresso. Vidi un'etā delle sue forze altera, Allorchč il Saracin recō dispregi Su tutti d'Asia i liti, E destō in Occidente ira e temenza. Ecco tacer le gare, ecco guerriera Fraternitā fra i battezzati Regi: Ecco d'Europa i volghi rïuniti: Ecco mille poteri una potenza Scuote, strascina, incanta: Tutti soldati son di Roma santa. ~~~~~~~~~~ Voce s'alzō di folte osti crociate: ŦCiō che saputo oprar non avean gli avi, Compiere č dato a noi! L'alme cristiane da concordia alfine A magnanima impresa suscitate Pių ludibrio non son d'affetti pravi. Cristo ne scelse per campioni suoi, E rimerto n'avrem palme divine: Da noi frattanto il mondo D'ogni impulso a giustizia andrā giocondoŧ. Gloria i pro' cavalieri ebber traendo La tomba del Signor da giogo infame, E grazie a' loro acciari Non invase anch'Europa il Mussulmano; Ma in vile obblėo religïon ponendo, Aprirō il core ad esecrande brame, In rapina emulār gli Arabi avari: Volsero a lacerarsi invida mano: Colpė i Crociati Iddio, E in Asia lor possente orma sparėo. ~~~~~~~~~~ Vidi un'etā delle sue forze altera, E nell'Italo suol fulse pių bella: Non giā poter di brandi Sorse a magnificar la sua fortuna, Sebbene ovunque ardesse ira guerriera: Fu suo splendido pregio una novella Ambizïon di studii venerandi: Parve Italia con Dante uscir di cuna, Indi Petrarca venne, E la corona in Campidoglio ottenne. Voce di qua dall'Alpe inclita alzossi: ŦDi civiltā sepolta era la luce; Ed or novellamente Sulla terra la spargono le Muse: L'idïoma oggi vivo affratellossi Agl'idïomi antichi, e si fa duce Anco agl'infimi spiriti possente, Sė ch'al ver tutte vie sono dischiuse; Gli studii pių non regge Idolatrėa, ma del Vangel la leggeŧ. ~~~~~~~~~~ Gloria il novo Parnaso ornō stupenda, Nč pių tutta disparve a' dė futuri; Ma non per ciō le vie Da' sommi ingegni al ver furono aperte: In cor del volgo non oprossi ammenda; Spirti v'ebbe pių colti e pių spergiuri: Sul Parnaso salite anco le arpėe Spesso di plauso e fiori andār coverte, E con immonda cetra D'influssi rei contaminaron l'etra. Vidi un'etā delle sue forze altera, E fra le sue venture una fu tale Che nulla mai sė grande Non pareva la terra aver lucrato, Sebben non per real possa guerriera: Tre savi industri (ond'un con infernale Patto a scïenze occulte, abbominande, Esser dicea la turba inizïato) L'arte inventaron, donde Ratto il pensier si stampa e si diffonde. ~~~~~~~~~~ Voce sonō per l'Europee contrade: ŦIncivilir mai non potean le genti Finchč sė nobil arte Non rapivano al cielo od all'inferno I tre veggenti della nostra etade: Or moltiplici fien tutti eccellenti Frutti di veritā, sė ch'ogni parte Prosperi della terra, al cibo eterno; Chč, s'error nasce ancora, Tosto convien che vilipeso moraŧ. Gloria sorrise all'immortal portento, Onde crebbe ogni scritto a mille a mille; Non pių temuto danno Fu il perir de' giovanti, aurei volumi: Ma con sacre faville indi incremento Trasser tante malefiche faville, Che se qui il ver, lā incensi ebbe l'inganno E fur cäosse ancor tenebre e lumi: Dei tre veggenti forse All'ombre irate il fatal don rimorse. ~~~~~~~~~~ Vidi un'etā delle sue forze altera, E l'uom che in lei saldissim'orma impresse, Fu il Ligure che volse Su novello emisfer l'armi e la frode Dell'ingorda europea stirpe guerriera: Chiese ad Italia che colā il träesse Promettendole un mondo, e spregi colse; Mosse ad Ispania, e prore ottenne e lode; Trovō i promessi regni, E n'ebbe in guiderdon vincoli indegni. Voce sublime alzār d'Europa i liti: ŦQuesto fra tutti eventi č il benedetto, Onde ignoranza cessa Nella sparsa d'Adam grande famiglia! Ambo emisferi dal battesmo uniti Scola esser denno a incivilir perfetto: Chč se per or la nova gente č oppressa Dall'invasor che a dirozzarla piglia, Succederā al conflitto Il trionfo dell'ara e del dirittoŧ. ~~~~~~~~~~ Gloria brillō sugli arbitri dell'acque; Ma l'assalita rozza gente, invece D'aver tutela amata Negli ospiti arricchiti in quel terreno, Parte ad orrenda tirannia soggiacque, Parte in pugne e miserie si disfece: Invidi per la terra conquistata I vincitori si squarciare il seno: Il novo mondo e il vecchio Fur di colpe e sciagure alterno specchio. Vidi un'etā delle sue forze altera, E il decimo Leon ne andō festoso, Intorno ad esso egregi Cotanti fur di civiltā i cultori. Oltremonti ferveano ira guerriera E furibondo zel religïoso, Sė che Roma schernėan popoli e regi; Ma ad onta delle guerre o degli errori, Di belle arti reėna Anzi al mondo brillō Roma divina. ~~~~~~~~~~ Voce tonō fra i nobili intelletti: ŦQuesto č il secol fecondo, in cui gagliarde E fantasėa e ragione Le lor potenze spiegano a vicenda; Destano, č ver, gli spirti maledetti Nuove eresėe, ma vieppių fervid'arde Zelo di veritā nella tenzone, E fia che pel Concilio indi pių splenda: Per queste grandi lutte Le insorte larve sperderansi tutteŧ. Gloria su quell'etā fulse immortale; Ma nč per la gentil magėa de' carmi, Nč pei dipinti insigni, Nč per pių gravi studi, e nč pel forte Dato da' santi di virtų segnale, Non s'antepose caritade all'armi, Non s'ambiron costumi alti e benigni; Chč di superbia sempre le ritorte Scevrār dai pochi buoni La turba degli stolti e de' ladroni. ~~~~~~~~~~ Vidi un'etā delle sue forze altera, Che di filosofia luce si disse: Garrė coi re, coll'are, Supplizi eresse, e libertate offrėo; Indi men rea si fece, e pių guerriera, Ed adorō il mortal che pių l'afflisse; Poi veggendo crollato il Luminare, A somme altre fortune alzō il desėo; Sempre mutava insegna, Giurando inalberar la pių condegna. Voce sonava in gallica favella, E le favelle tutte eco le fero: ŦSquarciato il velo abbiamo, Che per gran tempo de' cristiani al ciglio Celō del ver la salutar facella! Ripigliam de' pagani il bel sentiero; Forza, piacere, astuzia idolatriamo; Sia vilipeso di pietā il consiglio; Cosė l'umana polve Sostien suoi dritti, e da viltā si svolveŧ. ~~~~~~~~~~ Gloria di brandi e di scïenze e d'arti Cinse allor la fatal razza europea, Ma non s'udė che i petti Fosser men crudi che all'etā trascorse: Vivi lampi emanār da tutte parti, E folta nebbia pur vi si mescea; E spesso i furti eccelse opre fur detti, E il parricida a mieter laudi sorse; E senza amici il giusto Vivea schernito, e di calunnie onusto. Io vidi i tempi, e mesto allor sorrisi Dell'uman replicato, allegro vanto, Che ai posteri s'appresti Carco minor di guerra e di perfidia: Dacchč del sangue del fratello intrisi I passi di Cäin furo e di pianto, La famiglia mortal sempre funesti Nutre germogli di fraterna invidia: Mutan le usanze, e ognora Convien che Abel gema, perdoni e mora. ~~~~~~~~~~ Orrenda č storia, e sarā sempre orrenda Questa milizia della umana vita, Tal che lo stesso Iddio Fattosi a noi fratel, fu strazïato! Inorridiam, ma non viltā ci prenda: Possente č umanitā, benchč punita; La regge quel Divin che a lei s'unėo! Il figlio della creta č al duol dannato, Ma la terribil prova, S'egli ambisce il trionfo, a dargliel giova. Non qui, non qui il trionfo inter!--ma pure Qui giā comincia lo splendor de' giusti! Patiscon danni e morte, E il maligno sprezzarli indi s'infinge. Ei chiama lor virtų volgari e scure; Vorrėa che i rei fosser di laudi onusti; Ma tutte coscïenze un grido forte Son costrette ad alzar (Dio le costringe): ŦFalsa č, Cäin, tua gloria, Il grande č Abel, d'Abello č la vittoria!ŧ ALESSANDRO VOLTA. Erat vir ille simplex et rectus, et timens Deum. (_Job._ I. 1). Europa e il mondo onor ti rende, o Volta, Per l'altissimo ingegno ond'hai natura Scrutata, e in gravi magisterii svolta. E fin che indagin glorïosa dura Di scïenze tra i figli della terra, Il nome tuo d'obblio non fia pastura. Ma non sol perchč piacque a te far guerra De' fisici misteri all'ignoranza, Giusta laude il cor mio qui ti disserra. Vidi altro merto ch'ogni merto avanza Splender nella tua grande anima, ardente D'ogni santa e magnanima speranza. In tua vecchiezza, a me giovin demente T'avvicinava il caso.... ah! non il caso, Ma la bontā del senno onnipotente! E ti vidi anelar, perch'io süaso Dai falsi lumi d'empietā non gissi, Ma dal lume del ver crescessi invaso. Un dė, seduto appo quel Sommo, io dissi Quai m'affliggesser dubbii sciagurati Sovra i destini a umanitā prefissi; E gli narrai quai mi tendesse aguati Mia fantasia superba, investigante Supremi arcani, a noi da Dio negati. ŦO tu, gli dissi, che vedesti avante Pių di molti mortali entro a' secreti, Fra cui traluce il sempiterno Amante, Dimmi in qual foggia in mezzo a tante reti Di volgari credenze e d'incertezza, Circa la fede il tuo pensiero acquetiŧ. Il buon vegliardo a me con pia dolcezza: ŦFiglio, anch'io lungo tempo esaminando, Tenni la mente a dubitanze avvezza; E a' giovani anni mi turbava, quando Mi parea che del secolo i primai Di Fč il giogo scotesser venerando, E s'infingesser di scïenza a' rai Scoperto aver ch'Ara, Vangelo e Dio, Fuor ch'esca a plebe, altro non fosser mai. Temea non forse alfin dovessi anch'io Da' miei studi esser tratto a dir:--La scuola, Che mi parlō d'un Crëator, mentėo. Ma benchč ardito e avverso ad ogni fola, E benchč in secol tristo in ch'ebbe regno Quella filosofia che pių sconsola, E benchč procacciassi alzar lo ingegno, Sė che a Natura io lacerassi il velo, Sempre d'Iddio vidi innegabil segnoŧ. Cosė Volta parlava, ergendo al cielo La cerulea pupilla generosa, Poi seguitava con paterno zelo: ŦDegli audaci all'imper resister osa, Che da lor alta fama insuperbiti Noman religïone abbietta cosa! Mal per dottrina ostentansi investiti Di maggior luce che non dan gli altari: Io negli studi ho i passi lor seguiti, Nč scorto ho mai ch'uom veramente impari Saldo argomento a diniegar quel Nume, Che splende nel creato anco agl'ignari. E se d'umano spinto all'acume Diniegare č impossibile l'Eterno, Lui trovo pur di coscïenza al lumeŧ. ŦLui troviam tutti! dissi; e mai governo Del mio cor non faranno atee dottrine, Ma fuor del tempio assai dëisti io scerno. E tu forse a costor pių t'avvicine, Che non a quei che dall'Uom-Dio portate Estiman del Vangel le disciplineŧ. ŦT'inganni, o giovin! replicō (e sdegnate Sfavillaron le ciglia del vegliardo, Poi su me si rivolsero ammansate). T'inganni, o giovin! Nel Vangel lo sguardo Figgo come ne' cieli, ed in lui sento Tutto il poter di veritā gagliardo. Sento che negli umani un vïolento S'oprō disordin per peccato antico, E che vizio e virtų son mio tormento, Sento che il Crëator rimase amico De' puniti mortali; e, a noi disceso Per esserne modello, il benedico. Sento che siccom'Egli uomo s'č reso, Divino debbo farmi, e tutto giorno Viver per lui d'amor sublime acceso. Sento che puote ingegno essere adorno Di ricco intendimento e di scïenza, Della Croce adorando il santo scorno; E m'umilio con gioia e reverenza Col cattolico volgo a questa Croce, E in lei sola di scampo ho confidenzaŧ. Eloquente dal cor rompea la voce Del buon canuto, come a tal, cui forte Dell'error d'un amato angoscia cuoce. ŦTu mi garrisci e in un mi riconforte, Dissi, e poichč alla Chiesa un Volta crede, Spezzar de' dubbii spero le ritorteŧ. ŦLe spezzerai! quegli gridō con fede; Vedrai che bella fra' pių colti ingegni Anco religïosa anima incede! Nč immaginar che lungo tempo regni La gloria de' filosofi or vantati, Che fur di scherno e di superbia pregni: Pochi anni ti prenunzio, e smascherati Vedrai que' mille turpi falsamenti, Con che in lor carte i fatti han travisati. Il pių splendido autor di que' furenti, Che tutto diffamō col vil sogghigno, E con tai grazie che parean portenti, Malgrado i pregi del suo stil vōlpigno, E il suo bel _Lusignano_ e sua _Zaėra_, Detto sarā filosofo maligno. Ei tutti i dė giā meno ossequio ispira, E Francia, ond'ei sembrō tanto dottore, Giā del mentir di lui parla, e s'adira. Ed al crollar del gran profanatore La ciurma crollerā dei men famosi, Che volean Dio strappar dall'uman coreŧ. Io di Volta ridire i luminosi Sensi mal so, ma dell'egregio vecchio Amor mi prese, e pių a lui mente posi. Pių fïate percossero il mio orecchio I suoi santi dettami, e pių fïate Divisai farli di mia vita specchio. Io meditando tue parole amate, O incomparabil uom, pių non gustava Degli audaci le carte avvelenate. Ancor pur troppo da te lungi errava, Ma pur m'innamoravan que' volumi Che il dolce genio tuo mi commendava. Io debol era, ma ogni dė i costumi Del mondo a me tornavan pių molesti: Chč li scernea della tua fede ai lumi. Sovente i giorni miei trascorrean mesti, Perocchč i tuoi consigli io non seguėa, Mentre pur mi fulgean veri e celesti. Varie sorti e distanze a quella mia Tenerezza per te scemār vantaggio, E poco al tuo savere io mi nodrėa. Vedendoti di rado, il mio coraggio Appo la Croce non durō abbastanza, E a follėe tributai novello omaggio. Ahi! dič l'Onnipossente a mia incostanza Castigo di sventura e di catena, E lurid'antro a me divenne stanza! Tu, certo, benchč allor pensieri e lena Ti s'infiacchisser per decrepiti anni, Raccapricciasti di mia orribil pena, E con secreti gemiti ed affanni Per me a' pie' del Signore hai dimandato Sollievo e forza, ed alti disinganni. Ei t'esaudiva, e il creder tuo stampato Cosė alfine in quest'alma addentro venne, Che pių da dubbii non andō crollato. E gaudio e libertā poscia m'avvenne, E rividi la madre e il genitore Dopo la sanguinosa ansia decenne. Ma ne' giorni del mio lungo dolore Molte vite finėan la mortal traccia, E di batter cessō tuo nobil core. Duolmi che pių non posso infra tue braccia Gettarmi alcun momento, e alzare il ciglio In tua paterna, veneranda faccia. In tutti i dė del mio terreno esiglio Pregherō Dio che schiuda a te sua reggia, Se mai fuor ti legasse aspro vinciglio. Ma te giā spero nell'eletta greggia! Di lā mi vedi, e preghi impietosito Che in tua pace per sempre io ti riveggia. Perdonami se tardi io t'ho obbedito! A tua amistā m'affido, e affido pure Quel diletto mio Porro, a te gradito! Impetra il fin dell'alte sue sciagure; Impetra ch'io con esso e gli altri amici Troviam nel divo Amor gioie secure, Sė che n'abbian giovato i dė infelici! UGO FOSCOLO. Claritas....omnia sperat. (_I. Cor._ 13.7). Ugo conobbi, e qual fratel l'amai, Chč l'alma avea per me piena d'amore: Dolcissimi al suo fianco anni passai, E ad alti sensi ei m'elevava il core. Scender nol vidi ad artifizi mai, E viltā gli mettea cruccio ed orrore: Vate era sommo, ed avea cinto l'armi, E alteri come il brando eran suoi carmi. Tu fosti, o mio Luigi [1], il caro petto Che, allorch'io dalle Franche aure tornava, Me a quell'insigne amico tuo diletto Legasti d'amistā che non crollava: Oh quanto č salutare a giovinetto, Perchč avvolgersi sdegni in turba ignava, Lo stringer mente a mente e palma a palma Con celebre, gentil, fortissim'alma! Ma, sventura, sventura! Uom cosė degno D'amar colla sua grande anima Iddio, In fresca etā l'ardimentoso ingegno Ad infelici dubitanze aprėo: Che di natura l'ammirabil regno Opra di cieche sorti or gli apparėo, Or de' mondi il Signor gli tralucea, Ma incurante d'umani atti il credea. Nondimen fra' suoi dubbii sfortunati, Ugo abborrėa l'inverecondo zelo Di que' superbi, che, di fč scevrati, Fremono ch'altri innalzin voti al cielo; E talor mesto invidïava i fati Del pio, cui divin raggio č l'Evangelo; E spesso entrava in solitario tempio, Come non v'entra il baldanzoso e l'empio. E mi dicea che que' silenzi santi Della casa di Dio nella tard'ora, Quando qua e lā da pochi meditanti Sovra i proprii dolor si geme ed ōra, Ovvero i dolci vespertini canti Sacri alla Vergin ch'č del ciel Signora, Nell'alma gl'infondean pace profonda, O d'alta poesia la fean gioconda. Sempre onoranza fra i pių cari amici Rese al canuto Giovio venerando, E sue parole di virtų motrici Con benevol desio stava ascoltando, E a lui diceva:--ŦAnch'io giorni felici Ho sulla terra assaporati, quando Innamorata ancor la mia pupilla Vedea quel Nume che a' tuoi rai sfavillaŧ. E Giovio protendendo a lui la mano, Paternamente gli diceva:--ŦIo spero, Io per te spero assai, perocchč umano E magnanimo ferve il tuo pensiero! Invan t'ostini fra dubbiezze, invano Della grazia ricālcitri all'impero: Iddio t'ama, ti vuol, nč ti dā pace, Sinchč d'amor non ardi alla sua faceŧ. Tai detti al cor scendean del generoso Che il bel profondamente ne sentiva; E al vecchio amico rispondea:--ŦNon oso Sperar che in mar cotanto io giunga a riva; Ma vero č ben che pių non ho riposo, Dacch'egli č forza che dubbiando io viva, E un dė tua sicuranza acquistar bramo, E il mister della Croce onoro ed amoŧ. E siccome al buon Giovio sorridea Con ossequio amantissimo di figlio, Cosė sul mio Manzoni Ugo volgea Quasi paterno, glorïante ciglio: In esso egli ammirava e predicea Di fantasėa grandezza e di consiglio, Forte garrendo, se taluno ardėa Di Manzoni schernir l'anima pia. Tal eri, o mio sincero Ugo; e pių volte Io pure udii tuoi gemiti secreti, Qualor non prevedute eransi accolte Su te cause di giorni irrequïeti. La guancia t'aspergean lagrime folte Ricordando i fuggiti anni tuoi lieti: --ŦPercuotenti, sclamavi, un Dio tremendo, Che offender non vorrei, ma certo offendo!ŧ Allora a dimostrar che titubante Mal tuo grado bolliva il tuo intelletto, Ed odio non portavi all'are sante, E di sete del ver t'ardeva il petto, Meco avvertivi nella Bibbia quante Splendesser tracce del divino affetto, E confessavi, in tue mestissim'ore Sol raddolcirti quel gran libro il core. Un dė col genitor del mio Borsieri Io passeggiava al bosco suburbano, E tu ch'ivi leggendo sedut'eri, Ci vedesti, e gridasti da lontano: ŦEcco il volume degli eterni veri!ŧ Corsi, e il volume presi io da tua mano: Lessi: Evangelio! E--ŦBacialo! dicesti; Gl'insegnamenti d'un Iddio son questi!ŧ Ah, sebbene quell'Ugo ottenebrato Mal sapesse scevrar natura e Dio, E talor supponesse annichilato Nella tomba il mortal che i dė compio; D'altro dopo l'esequie eccelso fato Nodrėa talor vivissimo desėo, E dir l'intesi:--ŦNo, quest'alma forte Mai non potrā vil pasto esser di morte!ŧ E ben pių udii dal labbro tuo eloquente, Quando insiem leggevam famose carte, Ove un illustre ingegno miscredente Rampogne avea contro alla Chiesa sparte: Dal seggio allor balzasti impazïente, E ti vidi magnanimo scagliarte A sostener con voci alte e robuste, Che le accuse ivi mosse erano ingiuste. E quantunque a' Pontefici severo Si volgesse il tuo spirto e a' Sacerdoti, Ammiravi la cattedra di Piero Ne' giorni di sua possa pių remoti; E di gentil nell'arti magistero Datrice l'appellavi a' pronepoti; E sovra ognun che fu decoro all'are Liberal laude ti piacea innalzare. Se in alcuna tua carta eco facesti D'animi non cristiani alla favella; Se di soverchio duol semi funesti Sparsi hai ne' cuor che passïon flagella; Se del secolo errante in cui nascesti, Bench'alta, l'alma tua rimase ancella, Opra fu di fralezza e di prestigio, Non mai di petto a mire inique ligio. E il tuo libro d'amore isconsolato, Benchč riscosso immensi plausi avesse, Benchč da te qual prima gloria amato, Bench'opra non indegna a te paresse, Talor gemer ti fea, ch'avvelenato Un sorso gioventų quivi beesse D'ira selvaggia contra i fati umani, Ed idolo Ortis fosse a ingegni insani. Biasmo gagliardo quindi al giovin davi Che ti dicea suoi forsennati amori; E l'atterrarsi, codardėa nomavi, Sotto qual siasi incarco di dolori; E sua vita serbar gli comandavi Per la pietā dovuta a' genitori, Pel dovuto anelar d'ogni vivente, Sė che sacri a virtų sien braccio e mente. Di molti io memor son tuoi forti detti Da core usciti di giustizia acceso, E a tue nascose caritā assistetti, E al tuo perdon ver chi t'aveva offeso; E pochi vidi sė söavi petti Portar costanti il proprio e l'altrui peso, E quel pianto trovar, quella parola, Che gli afflitti commove, alza e consola. Memor di tanto, io spero, e spero assai, Che, sebben conscio non ne andasse il mondo, Sul letto almen della tua morte avrai Sentito del Signor desėo profondo: Spero che l'Angiol degli eterni guai, Giā di predar tua grande alma giocondo, L'avrā fremendo vista all'ultim'ora, Spiccato un volo al ciel, fuggirgli ancora. E mia speranza addoppiasi pensando Che alla tua madre fosti figlio amante: Quella vedova pia vivea pregando Che tu riedessi alle dottrine sante: Di buoni genitor sacro č il dimando, E sul cuor dell'Eterno č trionfante, Nč da parenti assunti in Paradiso Figlio che amolli, no, non fia diviso. L'inferma, antica genitrice ognora Benediceva a te con grande affetto, Perchč al minor fratello ed alla suora D'alta amicizia andar godevi stretto: Furono a Giulio giovincello ancora Quai di padre tue cure e il tuo precetto, Ed amai Giulio perocch'ei t'amava, E l'alma tua del nostro amor brillava. Ah! tanto spero io pių la tua salvezza, Che sventurato fosti in sulla terra! Or tuoi difetti, or tua leale asprezza Ti suscitār di mille irati guerra: E di profughi dė lunga amarezza, E povertā t'accompagnār sotterra: Nč lieve a te fu duol che dolci amici Fossero al pari, o pių di te infelici. Le lagrime vegg'io che certo hai spanto Quando l'annuncio orribil ti giungea Che, tronco della vita a me ogn'incanto, Per anni ed anni in ceppi esser dovea: Il Cielo sa se in mia prigion t'ho pianto, E quai voti il cor mio per te porgea! Sempre io chiesi per te l'inclita luce Che di tutto consola, e a Dio conduce. Dolce mi fu dopo decenne pena Riedere alla paterna amata riva; Ma allo spezzarsi della mia catena D'immenso gaudio l'alma mia fu priva; Chč di tue rimembranze era ripiena, E giā in Britannia il cener tuo dormiva! E seppi tue sciagure, e niun mi disse Se, morendo, il tuo core a Dio s'aprisse! Di tua vita furenti indagatori, Per laudare o schernir la tua memoria, Di te narraro i deplorandi errori Quasi parte maggior della tua gloria: Falsato indegnamente hanno i colori! Del tuo core ignorato hanno l'istoria! Ugo conobbi, o ingiurïanti infidi, E tra' suoi falli alta virtude io vidi! E tu, schietta e magnanima Quirina, Che appien di lui pur conoscesti il core, Meco ogni dė il rammenti alla divina, Infinita pietā del Salvatore: Come la mia, tua dolce alma s'inchina Con invitta fiducia e con fervore A pro del nostro amato, onde con esso Veder per sempre Iddio ne sia concesso. Appagar te non ponno, e me neppure, Nessun ponno appagar su caro estinto Funebri canti o funebri scolture, Da cui pari ad eroe venga dipinto: Uopo han di Dio le amanti creature! A fede e speme han l'intelletto avvinto! Noi non chiamiamo eroe l'amico andato: Amiam, preghiam ch'ei sia con noi salvato! Noi d'Ugo abbiamo un giudice pietoso, E tu sei quello, onniveggente Iddio: Non un de' suoi sospir ti fu nascoso; Anzi a te ogni sua giusta opra salėo. Che festi d'un mortal sė generoso? Dimmi se il perdonavi e a te s'unėo! Ah, se ancor di sue piaghe afflitto langue, Appien le asterga, o buon Gesų, il tuo sangue! [1] Mio fratello primogenito. LODOVICO DE BREME. Non obliviscaris amici tui in animo tuo. (_Eccli._ 37. 6). Dacchč miei ceppi hai franto, e il subalpino Aere di novo, o sommo Iddio, respiro, Piena d'incanti č al guardo mio Taurino; Ma un caro ch'io v'avea cerco e sospiro. Qui Lodovico nacque, e parte visse De' diletti suoi giorni, e qui patėo, E presso a morte qui le ciglia affisse L'ultima volta sul sembiante mio. E m'indicō le vie dov'ei solea Trar verso sera i solitarii passi, E il loco della chiesa ov'ei porgea Preci, me lunge, perchč a lui tornassi. Si ch'ogni giorno or qua or lā lo veggio Smorto ed infermo, e pien di lena sempre, Ed in ispirto al fianco suo passeggio, E parmi che sua voce il cor mi tempre. Negli estremi suoi dė quanto, o Signore, Altamente parlommi ei del Vangelo! Come esclamō che il rimordeano l'ore A gioie, a larve, e non sacrate al cielo! Ah, que' detti m'affidano, e m'affida La tua clemenza, e lui beato io spero! Ma se ancor dolorasse, odi mie grida, Aprigli i gaudii del tuo santo impero. Debitor fui di molto a Lodovico: Sprone agli studii miei si fea novello; Ai dolci amici suoi mi volle amico, E pių al suo prediletto Emmanuello[1]. Ma in ver di Ludovico io l'amicizia Ingratamente troppo rimertai, Fera in quegli anni m'opprimea mestizia, Nč a lui la vita abbellir seppi io mai. Con indulgenza infaticata il pondo Ei reggea di mia trista alma inquïeta, E spesse volte da dolor profondo A sorriso traeami e ad alta meta. Per forte impulso de' suoi cari accenti Energėa forse conseguii pių bella: Quell'energėa perch'uomo infra i tormenti Soffoca i lagni, e indomito s'appella. La facondia, l'amor, la pöesia Perscrutante e gentil de' suoi pensieri Luce nova sovente all'alma mia Davan cercando i sempiterni veri. Quante fïate a' gravi dubbii miei Mosse amichevol, generosa guerra, E me dai libri tracotanti e rei Svelse di lor, cui senza Dio č la terra! Se arditi di sua mente erano i voli Quando la mente ei di Platon seguiva, Pur temev'anco di ragione i dōli, Ed a' pič dell'altar si rifuggiva. Te sorpreso di morte sė precoce, Deh! amico, non avesse il fero artiglio! Pių fido mi vedresti ora alla Croce, Pių concorde or sarėa nostro consiglio. E tu stesso maestri avendo gli anni, Con pių sicura man rigetteresti Del secol nostro gli abbaglianti inganni, E tutti i lumi tuoi foran celesti. Ma fu per te misericordia certo, Che tu morissi pria dell'ora, in cui Trassi prigione in bolgie, ove deserto In grandi strazi per due lustri io fui. Le ambasce mie, le ambasce d'altri amici Troppo avrian tua pietosa alma squarciata: Chi vive sulla terra a' dė infelici, Troppo ne' danni i soli danni guata. Invece, assunto, come spero, al loco Ove in tutte sue parti il ver risplende, Veduto avrai che di sventura il foco Talor sana gli spirti a cui s'apprende. Veduto avrai siccome io, debol tanto Quando i miei dė fulgean pių dilettosi, Nel supremo dolor contenni il pianto, E mia fiducia nell'Eterno posi. Veduto avrai siccome, fatto io preda Di lunghe dubitanze sciagurate, Solo in carcer la diva afferrai teda, Che mie maggiori tenebre ha sgombrate. Veduto avrai, dentr'anime pių pure, Che non era la mia, nel duol costrette, Stimol gagliardo farsi le sciagure A volontā pių fervide e pių elette. Commiserato avrai noi doloranti, E reso grazie a Dio, tutti scernendo Dell'oprar suo sublime i fini santi, Pur quando sovra l'uom tuona tremendo. Tu mel dicevi un giorno, ed io superbo Crederlo non potea! Tu mel dicevi: ŦDio non si mostra a sua fattura acerbo, Se non perchč l'amata a lui s'elčviŧ. Non tutte sue fatture hann'uopo eguale Di venir da procella aspra battute, Ma tai ve n'ha che senza orrendo strale In fiacca letargėa sarian cadute. Nondimen di mia forza ancor non posso, No, glorïarmi, e spesse volte ancora Son da tristezza e da pietā commosso, E con suoi lumi Iddio non mi ristora. In quell'ore fantastiche di pena Godo passar dinanzi alle tue porte, E il core allor secreto pianto sfrena, Inconsolabil di tua infausta morte. Ma poi le tue sentenze generose Mi tornan nella mente, e il tuo sorriso; E m'inondano il sen dolcezze ascose, Ed anelo abbracciarti in Paradiso. Prego che tu vi sia! prego che appresso Al nostro Volta, ad ambiduo sė caro, Con lui mi guardi, e m'impetriate accesso Laddove col desėo giā mi riparo! Dio, salvator di molti amici miei, Ch'a te in vita e pių in morte alzaro il core, Di te indegno e di loro io mi rendei; A farmi degno, ti domando amore! [1] Il Principe Emmanuele della Cisterna. LA PATRIA. In Deo faciemus virtutem (_Ps._ 107. 14). Oh dolce patria! oh come Balza de' forti il core al tuo bel nome! Stimolo a generosi atti č desėo Ch'ella in senno e virtų splenda felice: La voce che nel dice, Voce č di caritā, voce č d'Iddio! Ma tu che in fondo al core Tutti gli arcani miei leggi, o Signore, Tu sai che l'amor patrio, onde mi vanto, Non č superba frenesėa di guerra, Perchč di sangue e pianto, A nome d'equitā, grondi la terra. Neppure a' dė lontani Quando me travolvean disegni insani, Quando far forza ai casi ambito avrei, Sė che a' brandi stranieri onta tornasse, Con chi gli altari odiasse Affratellato io mai non mi sarei. Veggio con ira e sprezzo Color che tutto giorno osan, dal lezzo Del vizio che li ammorba, alzar la destra, E, brandendo il pugnal del masnadiero, Chiamar cittadin vero Chi a lor perfida scuola s'ammaestra. Del santo patrio affetto Gl'ipocriti son dessi! In uman petto, Ove sė di pietā luce s'abbui, Non arde fiamma di virtų sublime: Son desse l'alme prime Che, s'uom pagarle vuol, vendono altrui. Amara esperïenza Mostrommi ch'ove somma č vïolenza Di feroce linguaggio, ivi s'asconde Mal fermo spirto, prono a codardėa: Sol l'alme vereconde Spiegan ne' buoni intenti alta energėa. Fida a virtų la mente Colui perchč terrėa che Iddio non sente? Anco in etā pagane i veri forti, Che opraron per la patria atti mirandi, Chiedeano al ciel le sorti, E per religïon divenian grandi. Ad onorar l'avita Terra chi meglio di Gesų ne invita? Di Gesų che ne impon fraterno amore! Che ne impon di giustizia ardente zelo! Che accenna premio il cielo A chi pel comun ben respira e muore! Gagliarda ira tremenda Serbiam pel dė che a provocarne scenda La burbanzosa aviditā straniera: Del Prence e della Patria allora a scampo, Precipitiamo in campo Col grido invitto:--ŦSi trionfi o pera!ŧ Accostin core a core Intanto pace, e begli studi, e amore! Chč troppo giā da fazïoni stolte, Di perpetua ingiustizia eccitatrici, Fur l'Itale pendici In lutto e sangue ed ignominia avvolte. L'estera invidia, quando Nostre glorie natėe vien visitando, Gli odii scorge, ed applaude alla maligna Fraterna gara, promettendo aiuti; E poi quando abbattuti Siam da discordia, ci disprezza e ghigna. Non c'illudiam fra sogni, Onde lo spirto desto indi vergogni: Ma ai circondanti popoli mostriamo, Che in tutte fasi di grandezze umane Grandezza in noi rimane, Dacchč al vero ed al bel sempre aspiriamo. Al vero e al bello sempre Aspiri chi sortiva itale tempre! Splendidissima a noi traccia segnaro Que' glorïosi, onde la sacra polve Tutte le glebe involve Di questo suolo, al cielo e a noi sė caro! Penisola gentile, Che sovra il mondo pria la signorile Spada gran tempo trionfando alzasti, E sebben misto a lutti inevitati, Sui barbari domati Ampio tesor di civiltā versasti! Penisola stupenda, Non nelle gioie sol, ma in sorte orrenda, Poichč per le tue colpe un dė prorotti Venti concordi popoli a vendetta, Da te fra lacci stretta Furo a degne arti, e al vero Dio condotti! Penisola divina, Che dell'antico imper dalla rovina Cosė sorgesti, come pronto sorge Sopraffatto da pargoli un adulto, Che, ad onta dell'insulto, Maestra mano ai dissennati porge! Penisola, ove siede Inconcussa da turbini la fede, Sė che per quanto annoveriamo estesi Della redenta umana stirpe i regni, Ognor ne' retti ingegni Da te i lumi del ver tornaro accesi! Sembra per te il Signore Pių che per altre terre arder d'amore! Sembra nelle tue dolci aure pių vago Emanar de' suoi cieli il bel sorriso; Sembra del Paradiso Volerti Iddio sovra quest'orbe imago! Sugli emuli tranquilla Rivolgi pur la tua regal pupilla. Or quel popolo or questo andare altero Puō primeggiando in forza d'auro o ferri: Pur non ve n'ha che atterri Il tuo sublime sulle menti impero. Se altrove č maledetta L'alma che striscia come serpe abbietta, L'alma che sorda a' grandi esempli aviti, Incurante di senno e di decoro, Serva si fa a coloro Che a sedurre e predar vengon suoi liti; Quanto pių reo non fora Chi, aperti gli occhi sotto Itala aurora, A patria di magnanimi cotanta Non sacrasse altamente opra e desėo! Il popol siam di Dio; Stampiam nostr'orme nella via pių santa! SALUZZO. Et sit splendor Domini Dei nostri super nos. (_Ps._ 89. 17). Oh di Saluzzo antiche, amate mura! Oh cittā, dove a riso apersi io prima Il core e a lutto e a speme ed a paura! Oh dolci colli! Oh mäestosa cima Del monte Viso, cui da lungo ammira La subalpina, immensa valle opima! Oh come nuovamente or su te gira Lieti sguardi, Saluzzo, il ciglio mio, E sacri affetti l'äer tuo m'ispira! Nelle sembianze del terren natėo V'č un potere indicibil che raccende Ogni ricordo, ogni desir pių pio. So che spiagge, quai siansi, inclite rende Pių d'un merto söave a chi vi nacque, E bella č patria pur fra balze orrende; Ma nessuna di grazia armonėa tacque, O Saluzzo, in tue rocce e in tue colline, E ne' tuoi campi e in tue purissim'acque. Ogni spirto gentil che peregrine A pič di queste nostre Alpi si sente Letizïar da fantasie divine. Sovra il tuo Carlo, e il dotto suo parente[1], Che pii vergaron le memorie avite, Spanda grazia immortal l'Onnipossente! Dolce č saper, che di non pigre vite Progenie siamo, e qui tenzone e regno Fu d'alme da amor patrio ingentilite. Pių d'un estero suol di canti degno Porse a mie luci attonite dolcezza, E alti pensieri mi parlō all'ingegno: Ma tu mi parli al cor con tenerezza, Qual madre che portommi infra sue braccia, E sul cui sen dormito ho in fanciullezza. Ben č ver che stampata ho breve traccia Teco, o Saluzzo, e il dė ch'io ti lasciai A noi giā lontanissimo s'affaccia. Pargoletto ancor m'era, e mi strappai Non senza ambascia da tue dolci sponde, E, diviso da te, pių t'apprezzai. Perocchč pių la lontananza asconde D'amata cosa i men leggiadri aspetti, E pių forte magėa sul bello infonde. Felice terra a me parea d'eletti La terra di mio Padre, e mi parea Altrove meno amanti essere i petti. E mi sovvien ch'io mai non m'assidea Sui ginocchi paterni cosė pago, Come quando tuoi vanti ei mi dicea. In me ingrandiasi ogni tua bella imago; Del nome saluzzese io insuperbiva; Di portarlo con laude io crescea vago. E degl'illustri ingegni tuoi gioiva, E numerarli mi piacea, pensando Che in me d'onor tu non andresti priva. Vennemi quel pensiero accompagnando Oltre i giorni infantili, allor che trassi Al di lā delle care Alpi angosciando. Nč t'obblïai, Saluzzo, allor che i passi All'Itale contrade io riportava, Benchč in tue mura il capo io non posassi. Chč il bacio de' parenti m'aspettava Nella cittā ch'č in Lombardia regina, E colā con anelito io volava. E colā vissi, e colsi la divina Fronde al suon di quel plauso generoso, Che premia, e inebbria, e suscita, e strascina. Oh Saluzzo! al mio giubilo orgoglioso Pe' coronati miei tragici versi, Tua memoria aggiungea gaudio nascoso. Oh quante volte allor che in me conversi Fulser gli occhi indulgenti del Lombardo, E spirti egregi ad onorarmi fersi, Ridissi a me con palpito gagliardo La saluzzese cuna, e mi ridissi Che grata a me rivolto avresti il guardo! E poi che in ogni Itala riva udissi Mentovar la mia scena innamorata, Ed ai mesti Aristarchi io sopravvissi, L'aura vana, che fama era nomata, Pareami gran tesor, ma vieppių bello Perchč a te gioia ne sarėa tornata. Mie mille ardenti vanitā un flagello Orribile di Dio ratto deluse, E negra carcer mi divenne ostello. Non pių sorriso d'immortali Muse! Non pių suono di plausi! e tutte vie A crescente rinomo indi precluse! Ma conforti reconditi alle mie Tristezze pur il Ciel mescolar volle, E il cor balzommi a rimembranze pie. Del captivo l'afflitta alma s'estolle A vita di pensier, che in qualche guisa Il compensa di quanto uomo gli tolle. E quella vita di pensier, divisa Fra le non molte pių dilette cose, Ora č tormento ed ora imparadisa. Io fra tai mura tetre e dolorose Pregava, e amava, e sentėa desto il raggio Del pöetar, che il cielo entro me pose. Miei carmi erano amor, prece, e coraggio; E fra le brame ch'esprimeano, v'era Ch'essi alla cuna mia fossero omaggio. Io alla rozza, ma buona alma straniera Del carcerier pingea miei patrii monti, E allor sua faccia apparėa men severa. E m'esultava il sen, quando con pronti Impeti d'amistā quel torvo sgherro Commosso si mostrava a' miei racconti. Pace allo spirto suo, che in mezzo al ferro Umanitā serbava! A lui di certo Debbo s'io vivo, e a' lidi miei m'atterro. Morto o insanito io fora in quel deserto, Se confortato non m'avesse un core Nato di donna, e a caritade aperto. Scevra quasi or mia vita č di dolore, Ad Italia renduto e a' natii poggi, Ov'alte m'attendean prove d'amore. Benedetti color, che dolci appoggi Mi fur nell'infortunio, e benedetti Color, che mia letizia addoppian oggi! E benedetta l'ora in che sedetti, Saluzzo mia, di novo entro tue sale, E strinsi a me concittadini petti! Non vana mai su te protenda l'ale Quell'Angiol, cui tuo scampo Iddio commise, Sė che nobil sia cosa in te il mortale! L'alme de' figli tuoi non sien divise Da fraterna discordia, e mai le pene Dell'infelice qui non sien derise! Le cittā circondanti ergan serene Lor pupille su te, siccome a suora Ch'orme incolpate a lor dinanzi tiene. E le lontane madri amin che nuora Vergin ne venga di Saluzzo, e questa Abbian figliuola reverente ognora; E la straniera vergin, che fu chiesta Da garzon saluzzese, in cor sorrida Come a lampo di grazia manifesta! Pera ogni spirto vil, se in te s'annida! Vi regni indol pietosa ed elegante, E magnanimo ardire, e amistā fida! Mai non cessino in te fantasėe sante, Che in dottrina gareggino, e sien luce A chi del bello, a chi del vero č amante; E del saver tra' figli tuoi sia duce Non maligna arroganza, invereconda, Ma quella fč che ad ogni bene induce; Quella fede che agli uomini feconda Le mentali potenze, a lor dicendo, Ch'uom non solo č dappių di belva immonda. Ma puō farsi divin, virtų seguendo! Ma dee farsi divino, o di viltate L'involve eterno sentimento orrendo! Tai son le preci che per te innalzate Da me son oggi, e sempre, o suol nativo: Breve soggiorno or fo in tue mura amate, Ma, dovunque io m'aggiri, appo te vivo! [1] Carlo Muletti, e Delfino suo padre, Storici di Saluzzo.--Io m'onoro dell'amicizia di Carlo, e parimente di quella del Maggiore Felice, suo fratello. IL POETA. Et stare fecit cantores contra altare. (_Eccli_. 47. 11). Perchč data m'hai questa ineffabile Sete di canto? Perchč poni tu in me questi palpiti Ricchi d'amor? --Questi doni a te fo perchč basso Non t'alletti nocevole incanto; Perchč vago del bello pių santo, A tal bello tu spinga altri cor. --Io t'ammiro, ed ahi! quelle mi mancano Voci stupende, Che dir ponno quai movi nell'anima Alti desir. --Non ambir le pompose loquele, Che la turba volgar non intende: Il Vangel che rapisce ed accende, Par d'ingenuo fanciullo il sospir. --Del possente Manzoni l'energico Inno a te vola: Io versar solo gemiti e lagrime Posso a' tuoi pič. --L'alto carme ispirai d'Isaia, Ma pur d'Amos la rozza parola Ogni labbro sublima, consola, Se gli umani richiama ver me. --Il tuo nome cantando alla patria, Quali degg'io Fra tue grazie e bellezze moltiplici Pių memorar? --Dille ch'io per amor la fei bella, Dille ch'amo, ed affetti desėo: S'invaghisca del grande amor mio; Mia beltā, mia natura č d'amar! --Ma non denno terribili fremere Gl'incliti vati, Imprecando, schernendo degl'improbi Opre e pensier? --Rei pensieri e mal opre dannando, Sieno i carmi a speranza temprati: Sii pietoso anco a' petti ingannati: Col furor non si suscita il ver. --Da pių secoli squarciano Italia Parti luttanti; Fa ch'io retto impostori e magnanimi Scerna fra lor. --Del Vangel l'amantissimo spirto Luce sia a tua ragione, a' tuoi canti: Spirar dči l'amor patrio de' Santi, Ch'č bontā, sacrificio ed onor. SOSPIRO. Tuus sum ego! (_Ps_. 118. 94). Amore č sospiro D'un core gemente, Che solo si sente, Che brama pietā: Dolore č sospiro D'un cor senz'aėta, Per cui pių la vita Incanto non ha. Speranza č sospiro D'un core, se agogna, Se mira, se sogna Ridente balen: Timore č sospiro D'un core abbattuto, Che forse ha perduto Un'ombra di ben. Timore, speranza, Dolore ed amore Del leve uman core Son vario sospir: Sospiro son breve La gioia, il martire, Son breve sospiro La vita, il morir. E pure in sė breve Sospiro, o mio Dio, M'hai dato il desėo D'accoglierti in me! M'hai dato una luce Che diva si sente, M'hai dato una mente Ch'elevasi a te. LA MENTE. Conjungere Deo et sustine. (_Eccli_. 2. 3). E che importa ovunque gema Questa salma sciagurata, S'altra possa Iddio m'ha data Che null'uom puō vincolar? Della creta dagl'inciampi Esce rapida la mente: Pių d'un tempo č a lei presente, Cielo abbraccia e terra, e mar. Io non son quest'egre membra Di poc'alito captive; Io son alma che in Dio vive, Io son libero pensier. Io son ente, che, securo Come l'aquila sul monte, Mira intorno, e l'ali ha pronte Ogni loco a posseder. Invisibile discendo Or a questi, or a quei lari; Bevo l'aura de' miei cari, Piango e rido in mezzo a lor. De' lontani veggio i guardi, De' lontani ascolto i detti: Mille gaudii d'altrui petti Mi riverberan nel cor. Essi pur, benchč da loro Lunge sia mio seno oppresso, San che li amo, san che spesso A lor palpito vicin: San che sol la minor parte Di me preda č degli affanni; San che l'alma ha forti vanni, Che il suo vol non ha confin. Lode eterna al Re de' Cieli Che m'ha dato questa mente, Che lo immagina, che il sente, Che parlargli e udirlo puō! Morte, invan brandisci il ferro Di che mai tremar degg'io? Sono spirto, e spirto č Dio; Nel suo sen mi salverō. MESTIZIA. In eo enim in quo passus est ipse et tentatus, potens est et eis qui tentantur auxiliari. (_Ep. ad Hebr_. 2. 18). Ah, nell'uom non v'č possa costante! E quell'io che poc'anzi era forte; Di repente in mestizia di morte Sento l'alma di novo languir! Grave incarco per me stesso Portar so di giorni amari, Ma pacato de' miei cari Ricordar non so il martėr. Questa almen, questa grazia dimando Nell'affanno che oppresso mi tiene, Che del mio Federico alle pene Talor possa conforto versar: Ch'io tal volta ridir possa A quel mesto amico mio, Che per lui non cesso a Dio Preci e gemiti alternar. Ma nessuno a mia brama risponde! Passan gli anni, e chi sa se frattanto Quell'amato i suoi giorni di pianto Sulla terra strascini tuttor? Alto duol pensarlo estinto, Alto duol pensarlo in vita! Gronda sangue la ferita Pių profonda del mio cor. A te volgo i miei lai, Divin Figlio, Che, sospeso in patibolo atroce, Una lagrima gių dalla croce Sulla Madre lasciavi cader. Pe' dolori tuoi mortali, Di tua Madre pe' dolori, Ah ti degna i nostri cuori Nell'angoscia sostener! Dalla croce una lagrima pure Sull'eletto Giovanni spargevi: Ogni dolce pietā conoscevi, Benedetta č da te l'amistā. Benedici ogni memoria Che m'avvince a Federico: Voti innalzo per l'amico, Per me voti innalzerā! E se avvien che il dovuto proposto Di non mai querelarci obblïamo, Ti sovvenga che debili siamo, E che i forti anche ponno languir. Ti sovvenga che tu pure D'uman frale andasti cinto, Che tristezza allor t'ha vinto, Ch'eri stanco di patir. TERESA CONFALONIERI. Lux justorum laetificat. (_Prov_. 13. 9) No, pia, no, gentile, Per me non sei morta! Ti veggio, simėle Ad angiolo sorta, Su sposo e fratelli E amici vegliar. Dal ciel mi risuona Tua dolce parola. Che spiriti innalza, Che petti consola: Cosė giā solevi Di Dio favellar. Se il cor mi si turba In me rivolgendo Che i giorni tuoi santi S'estinser, gemendo; Che giovin peristi In lungo patir; Io scerno che il pianto Mi tergi e sorridi! Io scerno che al cielo Ne inviti, ne guidi! Io t'odo che appelli Felice il martėr! Ell'era di quelle Serafiche menti, Vissute nel mondo Sublimi, innocenti, Amando, pregando, Chiamando a virtų. Doloran pei cari, Doloran per Dio, Lor merto arrichisce Chi in avanti fallė Lor vita č Calvario, Lor norma č Gesų! Ti piansi, ti piansi Con alto rammarco, Per me, pel tuo sposo D'angosce sė carco! Ma udii la tua voce Parlarmi nel cor. ŦLe fere sventure Son date a' mortali, Perchč dalla terra Dispieghino l'ali, Cogliendo le palme Che colse il Signorŧ. No, pia, no, gentile, Per me non sei morta! Ti veggio, simėle Ad angiolo sorta, Il vedovo amico. E me sostener. Ti veggio splendente Di gioie supreme; Ti veggio accennante Le sedi, ove insieme La pace de' forti Dovrem possedor! L'ANIMA D'UNA FIGLIA. (_Parla qui_ MARIA VALPERGA DI MASINO _alla Contessa_ EUFRASIA _sua madre_). Quonium pius e misericors est Deus. (_Eccli_. 2) Piangimi, o dolce Genitrice: a Dio No, non č oltraggio il tuo materno pianto. Della tua mente ogni pensier vegg'io, Leggo le pene onde il tuo core č infranto, Scerno fra cotai pene un gioėr pio, Me figurando al Re de' Cieli accanto; Scerno che tu il maggior de' sacrifici Rinnovelli ogni giorno e benedici. Ma affinchč le tue lagrime pietose Grondino pių soävi, o madre amata, Io ti paleserō cagioni ascose, Per cui sė tosto al ciel venni chiamata: Non fu olocausto sol che Iddio t'impose Per affinar l'anima tua elevata: Di me compassïone alta lo prese, E me sottrarre a sommi affanni intese. La tempra ch'Egli al fianco tuo mi dava, Era tutta d'affetto e d'innocenza: Io caldamente i genitori amava, Io gioconda sentėami in lor presenta: Il caro guardo tuo mi confortava, Qual guardo di superna intelligenza: Io d'uopo ognor avea di starti unita, Tu della vita mia eri la vita. Di congiunti e d'amici altr'alme belle: Dopo il padre e la madre eranmi care: Tanto v'amava, e tanto amava io quelle, Che pių tesori io non sapea bramare. Il pensier che sorride alle donzelle Di rosei serti e nuzïale altare, A me non sorridea, temendo ognora Che a te vivrei meno vicina allora. Dato m'avresti, č ver, degno consorte, E quindi io molto esso pregiato avrei; E d'esser madre avuto avrei la sorte, E rapita m'avriano i figli miei; Ma come inevitabili di morte Son su questo o su quello i dardi rei, Avrei veduto chi sa quali amati Anzi a me infelicissima atterrati! Ah! s'io perduto avessi alcun di loro, E te precipuamente, o madre mia, Sė acerbo fora stato il mio martoro, Che capir mente d'uom non lo potria! Commosso fu quell'Ottimo che adoro Dai dolci sensi ch'egli in me nodrėa, E perchč strazi io non avessi atroci, Una invece mi dič di molte croci. Quest'una era il lasciarvi, o miei diletti, E pių, madre, il lasciar te sė dogliosa: Pesante croce fu! la ricevetti Come don dell'Eterno ond'era io sposa: Premendola al mio sen, piansi e gemetti, Ma investimmi Ei di grazia generosa: Pesante croce! ma in serrarla al core Sentii che al cor serrava il mio Signore! Sai tu perchč negli ultimi momenti Io, nel parlar delle mie nozze eterne, Volsi ancora su te sguardi ridenti, Come talun che liete cose scerne? Dalle lor salme l'anime innocenti Divelte son con voluttadi interne: Perde per esse il pungol suo pių forte La regnante sul mondo ira di morte. Giā pria di separarmi dalla spoglia Dotata fui di vista celestiale: Schiusa a me ravvisai l'eterea soglia, Vestita mi sentii d'angelich'ale: Tutto mi s'abbellė, fin la tua doglia, Cui di rado la terra ebbe l'eguale: Divina luce a me svelava il merto Del materno dolore a Gesų offerto. E vidi allora, o madre mia, che il mondo De' rammarichi nostri non č degno: Vidi che frode e malignar profondo Han tal perpetuo fra' viventi regno, Che spirto ivi non puote andar giocondo, Benchč di virtų segua il santo segno: Compiangendo chi resta in tanta guerra, Io mi strappai contenta dalla terra. E contenta vieppių me ne strappai, Perchč i tuoi sensi mi fur noti appieno: Seppi che da tal madre io germogliai, In cui fortezza mai non verrā meno: Seppi che a dritto il caro padre amai, E ch'ambo in ciel ristringerovvi al seno; Seppi ch'io, precedendovi, ottenuto Avrei per voi d'eccelse grazie ajuto. Piangimi, o dolce genitrice: a Dio No, non č oltraggio il tuo materno pianto; Ma pensa che felice or qui son io, Che degli sposi mi toccō il pių santo; Che siccome eri tu l'angiolo mio, Angiolo or son che aleggio a te d'accanto, E, qual tu provvedevi a' gaudii miei, Cosė di me perenne cura or sei. Duo carissimi spiriti celesti Meco sempre su te stanno vegliando, Cui pochi giorni tu per prole avesti, Poi ratti a Dio volaron giubilando: Nostra gara č scostare i dė funesti Dal tuo materno aspetto venerando: Una di nostre gioie č sul tuo viso Certo mirar suggel di Paradiso. Possederti vorremmo in ciel sin d'ora, Ma caritā ciō chieder non consente: Tale offri degno esempio a chi dolora, Tal sei provvida madre all'indigente; Se tarda viene a te la suprem'ora, Maggior gloria n'avrā l'Onnipotente, E, al suo cenno, da noi tua fronte amata Fia di pių chiare stelle incoronata. L'ANIMA DI CLEMENTINA. (_La Marchesa_ CLEMENTINA GUASCO, _nata_ della Rovere), Et sic semper cum Domino erimus. (_Ep. ad Thess. II, c._ 4). Sposo, sorella, figlia, e voi, per cui Data, o fratelli, avrei pur la mia vita, Amiamci in Dio! Per meglio amarvi in lui Io son partita. Soffersi in vita, in agonia soffersi, Ma ne' dolori mi sostenne un Dio: Non ne gemete, que' dolor gli offersi, E a' suoi li unėo. E s'ebbi in terra alcuni giorni amari, L'affetto vostro li abbellė cotanto, Che pur tai giorni a me tornaron cari Standovi accanto. Svelar non debbo s'io giā son felice, Ovver se il prego vostro ancor mi giova: Amo quel prego: Iddio ven benedice Con grazia nova. Amo quel prego ed ogni dolce segno Di pia memoria che il mio nome onora; Ma il duol frenate: nell'eterno regno Vedremci ancora. Il duolo frena, o generoso Carlo: Sol del mio aspetto nostra figlia č priva: A lei nel cor sempre del padre io parlo, In lei son viva. Per quell'amor ch'ella a suo padre porta, Un dė fia moglie ad uom che t'assomigli, Ed alta gioia splenderā, risorta Di lei tra' figli. Ed ecco un angiol pur che ti consola, Ecco una madre che alla figlia resta: Tal č mia suora; ogni atto, ogni parola Di lei l'attesta. E Clementina pur, benchč offuscati, Sien vostri sguardi, presso a voi rimane: L'alme, che han vita in Dio, dai loro amati Non son lontane. Fra le mie braccia siete ad ogni istante, E bacio vostre lagrime pietose, E forte amor v'ispiro a tutte sante Bellezze ascose. Fuggon siccome rapid'ombra gli anni, Comun palestra a caritā e dolore: Me troverete dopo brevi, affanni Appo il Signore! VERITĀ E SOFISMO. Resistite fortes in fide. (_Petri Ep. I._ 5.9). SOFISMO Ov'č amistā? Chi cento volte e cento Sotto le spoglie d'amistā non vide Nei men turpi adulante approvamento, Che merca dono o laude, e ascoso ride, Negli altri la calunnia, il tradimento, La nera ingratitudine che intride La man nel sangue e i benefizi sprazza, E non puō cancellarli e pių ne impazza? Ove son leggi d'equitā? Il selvaggio Che, simile a Caïno, erra per balze, Libero č appena: ogni cittā č servaggio Sia che regnante scure un solo innalze, Sia che, brandita in man di molti, il raggio Vieppių vario ed orrendo intorno balze; E chi succede ad atterrata possa, Ladro č che l'arme d'altro ladro indossa. Ov'č religïon? Di sangue umano Fumar fu vista di pių Numi l'ara; E veggio pur sotto mantel cristiano Egöismo; e viltā celarsi a gara: L'uom per natura ha ingegno empio e profano, Loda il Vangelo, e da lui nulla impara; Vuol caritā, ma in altri sol la vuole, E tesse a proprio, lucro atti e parole. VERITA' Non v'inganni, o mortali un dispettoso Filosofar che tutte cose annera: Sdegno pur troppo ci sembra generoso Alla infelice de' maligni schiera: Giustificar cosė cercar l'ascoso Senso d'iniquitā che li dispera, O pur malignan perchč infermi sono, E mertan, non giā plauso ma perdono. Ogni nobile petto ebbe un amico, O pių d'un n'ebbe, e alcun ne serba ancora, E se perseguitato anco e mendico Visse fra indegni e fra pių indegni mora, Ei si rammenta qualche amato antico, E alle umane virtų crede e le onora, E, morendo, ci consolasi al pensiero Che in cielo ei rivedrā quel cor sincero. Ogni nobile petto ha reverenza Di giuste leggi, ed egualmente abborre La non volgare e la volgar licenza, Che dritto vanta, e ad ingiustizia corre: Ei sa, che se perfetta sapïenza Giammai non puossi a leggi umane, imporre, Pur son tal ordin, senza cui la terra Sarėa di tigri sanguinosa guerra. Ogni nobile petto ama, ed č amato: Ogni nobile petto il giusto vede: Ogni nobile petto un deturpato. Culto deplora, e al vero culto crede; Dai lumi della grazia irradïato Ragiona, e a sua ragion guida č la fede; Sprezza le vanitā, ma gli uomini ama, E a sublime sentier seco li chiama. SOFISMO. Che fate, o sciagurati, in sė ria valle, Stima alterna sognando, e alterno amore? Volgete ad ogni mira alta le spalle, Scambiatevi dispregio, odio, livore: Segua ognun della vita il mesto calle Fin che sotto a' suoi pič cresce alcun fiore, Poi, dacchč a tutti ei far non puossi boia, Si squarci il seno, e disperato muoia! VERITA' Che fate in questa valle, o sciagurati, Necessario sognando alterno sdegno? I mali suoi dall'uom sono addoppiati, Se di superba intolleranza č pregno: A dolor, sė, ma pure a gioia nati, Da mutua avrete caritā sostegno; Forza non siede in vile ira feroce, Ma in portar con serena alma la croce. E forza siede in perdonar sovente Alle stolide colpe de' fratelli; In confessar che d'uom cieca la mente Sempre inciampa, se in Dio non si puntelli; In riedere ogni dė gagliardamente Rischi ed affanni a sostener novelli; In memorar, d'ogni fralezza ad onta, Che nel mortal v'č del Signor l'impronta. SOFISMO. Se tanto eccelsa, filosofich'ira Non arde in voi da pugnalarvi il seno, Vivete almen com'alto eroe che mira Tutto con ciglio di minaccia pieno; Dite che a voi sommo dispregio ispira Chi non č pronto a usar brando o veleno; Libri dettate in bile e sangue scritti, Per insegnar a umanitā suoi dritti. E s'uomo studia e suscita incremento Di lumi e di virtų senza pugnali; S'ei non porge a plebee rabbie fomento, Perchč s'alzino a dar leggi a' mortali; S'ei non crede esser merto o tradimento L'avere o non aver grandi natali; S'egli ama il pio, sotto qual sia cappello, Dite ch'ei degli stolti č nel drappello. VERITA' Compiangete la stizza de' volgari, Che cieca sempre qua e lā si scaglia; Filosofia seguite appo gli altari; Di calunnie e d'ingiurie non vi caglia; Sorridete ad ogn'uom che insegni e impari Quanto amore e indulgenza al mondo vaglia; De' frementi nč il plauso nč gli scherni Norma non sian che il vostro oprar governi. Libri dettate a sollevar gli umani Dai lacci delle ignobili dottrine; Siate pensanti, ma non irti e strani, Non consiglier di scandali e rapine; Ponete mente che gl'ingegni sani Invocano edifizi e non ruine: Bando al Sofismo! egli č quel genio truce, Che al suo fango infernal l'alme conduce. Č desso, č desso l'avversario antico, Che, d'angiol luminoso assunto il velo, Sempre de' vizi s'ostentō nemico, Vituperando umana razza e cielo; Ei trasse Giuda al maladetto fico; Esca egli fu del farisaico zelo; Ei repubbliche e regni urta, dissolve, Ed erge invece putridume e polve. IL COLERA IN PIEMONTE, Sursum corda! (_Praef_.) Eleviam fra le lagrime i cuori, Sosteniamo gli scossi intelletti! Siam colpiti, ma non maladetti, Man paterna č la man del Signor. Per provarci con prova pių forte, Per destarci a pių nobil costanza, Egli ha detto ad un angiol di morte: --Tue saette raddoppia su lor. Invisibil quell'angiolo armato Scorre l'aer, e su' lidi ove passa Pianti ed urli e cadaveri lassa, E prosegue il mortifero vol. Del disordin la turba seguace Cade prima nell'orrido scempio, Ma co' rei pių d'un giusto soggiace, Sė ch'avvolta č la patria nel duol. Se non che negli estremi perigli Si rinforzan gli spirti pių degni: La sventura, spavento de' regni, Pur de' regni salute esser puō. Lor salute esser puō se di Dio Meglio i cenni seguire han prefisso, Se rivolgon ogni opra e desėo Alla meta per cui li creō. Debit'č che luttiamo incessanti Della patria a impedir maggior danno, Che tentiam con magnanimo affanno Da sterminio i fratelli strappar; Che accorriamo a' languenti, a' morenti, Che obblïato il mendico non pera, Che al drappel de' pupilli innocenti Ci affrettiam pane e lagrime a dar. Debit'č doloroso, tremendo! Ma gagliarda č la mente dell'uomo: S'č con Dio, da che mai sarā domo? Patirā, ma con forza immortal. Ei con Dio? Chi di noi fia con esso? Tutti il siam, sebben consci di colpe; Se il pič nostro da lor retrocesso, Oggi a vie di giustizia risal; Se d'aïta siam prodighi a tutti, S'alto amore in nostr'alme ragiona, Se il nemico al nemico perdona, Se discordia civil pių non v'č; Se, coll'opre le preci alternando, Pių null'uom d'esser pio si vergogna, Se sparisce lo scherno nefando Che alla croce vii guerra giā fe'! Eleviam fra le lagrime i cuori, Sosteniamo gli scossi intelletti: Siam colpiti, ma non maladetti; Man paterna č la man del Signor. Noi felici, ove questa procella Da colpevol letargo ci desti! Noi felici, ove gli animi impella A bei fatti, a sublime fervor! Dopo noi sorgerā dignitosa In Piemonte di forti una schiatta, Che a benefiche gare fia tratta Dall'esempio che i padri lor dier: Ed allora a que' nobili figli Con amor dalle stelle arridendo, I lor genii sarem ne' perigli, Sarem luce a' lor santi voler! CESSATO IL COLERA. Cumque quaesieris ibi Dominum Deum tuum, invenies cum, si tamen toto corde quaesieris, et tota tribulatione animae tuae. (_Deut_. 4. 29). Crëato spirto che al mio fral sei vita, Potenze tutte onde m'esulta il core, Alziamo, alziam di gaudio intenerita Voce al Signore! Dal ciel suoi doni sulla terra effuse, Noi li obblïammo, e ripetč i suoi doni: Ci flagellō, ma ne' flagelli incluse Grazie e perdoni. Egli č colui che i doloranti sana; Che dalla morte, ch'all'uom rugge intorno, Sotto il suo scudo amico lo allontana Di giorno in giorno. Poi quando a molte umane brame arrise, Toglie quell'ente che vivendo amollo; Ma questo debol ente ei non uccise, Sugli astri alzollo. Egli č colui che ai sopportanti oltraggio In guiderdone offre onoranza eterna; Colui che i fati del mortal lignaggio E il ciel governa. Misericordia ed equitā lo guida, Se crea, se cangia, se mantien, se spezza: Amico all'uomo, ei vuol che l'uom divida Sua tenerezza. Un giorno scese dall'eccelsa sfera Per esser uomo e allevïarci il duolo; Calice orrendo, affinchč l'uom non pera, Tracannō solo. Ci favellō non pių come in Orebbe Con formidabil, mistica favella, Ma qual mortal che della donna crebbe Alla mammella. E quella Madre ch'egli amō cotanto Diede alle donne qual modello e amica, Qual Madre a ognun ch'a lei con dolor santo Sue pene dica. Le nostre pene, ah sė! dalle Taurine Sponde alla Madre del Signor dicemmo, E le pupille sue sovra noi chine Brillar vedemmo. L'indica lue nostr'aure appena attinse, Ci risovvenne la pietā degli avi, E quella Madre col sospir respinse Gl'influssi pravi. Andō assalendo il morbo alcune vite, Ma pių rifulse indi il recato scampo: A gare insiem di caritā squisite S'aperse un campo. Anco una Forte del pių debol sesso Accorse agli egri, sorbė l'aer funesto, E consolō con dolci cure e amplesso L'orfano mesto. E visti fur della cittā i Maggiori Trar di Maria Consolatrice al piede, E in voto stringer tutti i nostri cuori A salda fede. E visti furo i cittadin pių culti Coll'umil volgo unirsi, in Dio sperando, Nč de' beffardi paventar gl'insulti Maria invocando. Piace al Signor che la sua Vergin Madre Ne incori e affidi col suo bel sorriso, Sė ch'aspiriam con opre alte e leggiadre Al Paradiso. Vera religïon, ch'č tutta bella, Gaudio ne pinge in Dio, non vil cipiglio, Se lo onoriam ne' Santi, e vieppių in Quella, Cui nacque Figlio. Guasta dall'uom, religïon ne pinge Non so qual Dio alterissimo, cui duole, Se a quella Madre che al suo sen lo stringe Drizziam parole. Fede in te sempre avremo, o Genitrice Dell'umanato, ver Lume divino! Tu sei potente in ciel, tu salvatrice Sei di Taurino! IL VOTO A MARIA. Deinde dicit discipulo: ŦEcce mater tuaŧ. (_Ioh_. 19. 27). Serpeggiava il malefico elemento Cui dal Gange svolgea l'ira divina, E, recato per l'aer morte e spavento, Pur la dolce assalėa sponda Taurina: Dalla nostra cittā s'alzō un lamento Alla Vergin, cui terra e ciel s'inchina; E come gli avi giā correano ad essa, Corremmo a lei colla fidanza istessa. Sciolto č il voto, innalzata č la Colonna, Che, or volge un anno, il cittadin fervore Imprometteva alla superna Donna, Deprecando l'orribile malore: Speranza in lei vieppių di noi s'indonna, Dacchč prova ci dič somma d'amore: Venne l'indica lue, tremenda apparve, Ma al cenno di Maria sedossi e sparve. Ah! questo monumento una incessante Sarā preghiera delle nostre schiatte! Ei rammenterā sempre al vïandante L'inclite grazie che a Taurin son fatte. Ve' l'immagin di Lei col Figlio amante, Ch'orgoglio umano ed uman'ira abbatte! Deh! nessun passi mai per questa via Che il cor non alzi ver Gesų e Maria! O Regina del Ciel, non č sgombrata La fera lue da tutti i nostri lidi! Piange al flagel Dertona sconsolata, E d'altre sponde a te s'elevan gridi: Pietā di loro! e sia Taurin salvata! Chiedi al Signor che a lui viviam pių fidi; Digli che il vuoi; le menti in noi migliora, E il figlio tuo benediranne allora! Deh, ci ottieni ogni don, ma pių virtute Di fraterna concordia e d'intelletto! Qui l'alme vili sien di gloria mute, Qui del bello e del ver splenda l'affetto! Qui insidie di stranier non sien tessute, Qui sia armonia di Prence e di soggetto! Qui in pace o in guerra, in giubilo od in pianto Stiane Maria sospitatrice accanto! Tu, dopo il Dio che s'umano in tuo seno, Sei l'Ente pių benefico del mondo; La nobil Eva in cui non fu veleno; La vincitrice dello spirto immondo; L'umano cor che al divin Rege appieno Gradė, perchč in amar fu il pių profondo: Tu sei la donna in sua perfetta altezza; Degli Angioli e di Dio sei l'allegrezza! Invan sonō in pių secoli, ed invano Sonerā ancor di cieche menti il riso, Che il bel culto a Maria chiamano insano: Noi la Donna onoriam del Paradiso; Noi giubiliam che il Reggitor sovrano Volgane, in braccio a lei, clemente viso; Noi sentiamo l'incanto celestiale D'aver madre una madre al Dio immortale! Quindi risponderemo all'infelice Che corruccioso ti sogguarda e ghigna: ŦDegli avi nostri fu consolatrice, E nostr'umile pianto udė benigna! Divine cose il nome suo ne dice; Per esso in noi pių cavitarie alligna! Non sappiamo amar Dio fuorchč con Quella, Che per noi l'ha nodrito a sua mammella!ŧ Che sono i monumenti? Iddio non chiede Statue e colonne, ma infiammati cuori. Č ver, ma i sacri segni alzan la fede; Gridan d'etā in etade: ŦIl Ciel s'onori!ŧ Nobilitan le vie dov'hanno sede; Collegano i nepoti a' lor maggiori; Son degl'ingegni sconfortati al guardo, Qual movente a bell'opre, alto stendardo. Or questo novo segno al vicin tempio Appellerā ogni giorno i passeggieri: Quivi la maestā, quivi l'esempio Degl'incessanti aneliti sinceri, Ad ossequio talor costringon l'empio, L'invaghiscon talor de' pii misteri; E s'egli te, Madre d'afflitti, implora, Il miri, il tocchi,--ed č tuo figlio ancora! LA MADRE DEGLI AFFLITTI. Monstra te esse matrem! ( _Av. m. st_.). O Vergin santa, che il Signore elesse Per nascer dal tuo sen Uom de' dolori, Uom che modello a tutti noi splendesse! Tu, benchč pura, non respingi i cuori Che a te sorgon macchiati, e come il Figlio Brami scampo e non lutto ai peccatori. Deh, volgi anco su me quel divin ciglio Che sempre da clemenza č intenerito Verso chi prega dal suo tristo esiglio! Io t'amai da fanciullo, indi partito Da te sembrai, ma spesso a te pensando, De' lunghi errori miei gemea pentito; Ed in que' giorni di dubbiezza, quando Della fallacia dell'orgoglio mio Pur meco stesso mi venia crucciando, Un bisogno invincibile d'Iddio Talvolta m'assaliva e mi parea Che a speranza da te mosso foss'io. E se in un tempio allor mi ritraea, Cercava la tua immagine, e in quel viso Virgineo e celestial fede io ponea. E gioiva al pensar che in paradiso, Appo il fulgor dell'eternal bellezza, Brillasse d'una femmina il sorriso! Il sorriso di madre a pietā avvezza, Ed al desėo che in virtų crescan lieti Quei cari figli ch'ella tanto apprezza. Non badar, no, se troppo a' consüeti Sentier d'infedeltā raddotto m'hanno Miei giovenili affetti irrequïeti, Pių fermo or t'amerō, pių non trarranno Lunge i miei passi da tua dolce via: Fuor d'essa tutto vidi essere inganno. Degna di te non č l'anima mia, Ma pensa ch'opra č pur del Benedetto Che da te nacque, e che per me patėa. Riconduci quest'alma al tuo Diletto; Digli che sempre in esso e in te sperava. Digli che tu di confidar m'hai detto! Digli che il danno mio t'addolorava, Digli che l'amor tuo salvo mi vuole, Digli che a te dal Golgota ei mi dava! Tai dalla madre udendo alte parole Arriderā, siccome ai sapïenti Tuoi desiderii tutti arrider suole. Se gli spiacquero in me cuore ed accenti, Cuore ed accenti mi darā novelli, Sė che pių caro a dritto, io gli diventi. Santificata l'arpa mia pių belli, Pių fervid'inni eleverā, dicendo Come gli afflitti dal periglio svelli. E forse allor pių d'un che va fuggendo Sdegnosamente la tua pia chiamata, Te d'illusi ignoranti idol credendo, Fermerā il passo perch'io t'ho cantata, E ridirā:--Ma chi č mai costei, Che pur da quell'altero č commendata? Alzando gli occhi imparerā chi sei; Stupirā, t'amerā, nobil rossore Avrā, qual ebbi degl'indugi rei. Ma, deh! ti mostra madre al peccatore Pur se debole ei resta, e se talvolta Inchinato a viltā gli scerni il core. Poca mia possa, ma tua possa č molta; Per balze, per fiumane or tremo, or cado, Ma, qual ch'io sia, tu le mie grida ascolta. Spesse fiate in malagevol guado Mi porgesti la mano, e uscii dell'onde; M'alzi tua dolce man di grado in grado Da questi rischi alle celesti sponde! DIO E MARIA. Astitit Regina a dextris tuis. (_Ps_. 44). Umile sė, ma ardimentoso il core Sorga dal fango e si sollevi a Dio: Cinto d'argilla, ma di te, Signore, Figlio son io! Bella č la terra, e i favillanti strali Del nobil astro che il suo sen feconda, E il dė e la notte, e i fiori e gli animali, E l'aere e l'onda. Bello č l'imper dell'uom su gli elementi: Ei gioia cerca, e gioia sogna o trova; Ma sete sempre han suoi desiri ardenti Di gioia nuova. A me non bastan tue bellezze, o terra; Le indagai tutte, le ammirai, le ammiro; Ombre son vaghe, e morte a lor fa guerra: Io il ver sospiro. Ed in te solo č il vero, o impermutato Bello ineffabil che allumasti il sole, Ed a' tuoi figli nella polve hai dato Vita e parole. Chi sei? nol so. Chi son? nol so. Ma pure Traluci a me, benchč ti copra un velo; In mille voci annuncian tue fatture Il Re del Cielo. Ma delle tue fatture la pių bella, Quella che pių di grazia č portatrice, Quella che pių ti rappresenta, quella Che al cor pių dice, Ell'č Maria, la Vergine, la Figlia Dell'Uomo, in Ciel fatta a' fratei reina! La femminil pietā che s'assomiglia Alla divina! UN FILOSOFO. Lex lux. (_Prov_. 6. 23). Dopo indefessi studii, Sopra vantate carte Giustin vedea non fulgere Fuorchč bugiarda un'arte Con cui l'audacia illudere Del fervido mortal, E il ver col falso mescere, E la virtų col mal. A nobil ira il mossero Il vil, cinico riso, L'epicurea mollizie, Il duro stoico viso; In tutte scuole un'invida Di laudi fame e d'or; Sul labbro la giustizia, L'iniquitā nel cor. E si squarciō dagli omeri Nel suo corruccio il manto; Gettō i volumi turgidi, Scevri per lui d'incanto, E con profondo-gemito Disse:--ŦNon v'č quaggių Luce che guidi i miseri A veritā e virtų!ŧ.--- ŦEvvi!ŧ gli grida un provvido Vecchio che i lagni udėa. Giustin lo mira attonito, Poi dice: ŦNo! follėa!ŧ-- ŦFollėe ti svolser, gli uomini (L'altro risponde allor); Leggi quest'alte pagine!ŧ-- ŦChi le dettō?ŧ--ŦIl Signor!ŧ Tra speranzoso e incredulo Giustin quel libro afferra: Le carte eran profetiche Che a tutti error fan guerra, Che svelan ne' primordii D'umanitā il fallir, Poi l'empio Giuda e il Gōlgota, E d'un Iddio il patir. Gli sconosciuti oracoli Il dubitante aperse, E d'Isaia nel cantico Lo spirito sommerse. Legge:--_Ascoltate, o popoli, D'ira divina il suon: Io Re del Ciel, di vittime Infastidito io son._ _Incensi ed inni perfidi Il mio intelletto abborre: Premio di voti ipocriti Non mai sperate côrre; Sangue le mani grondano, E voi le alzate a me? Tergetele, o miei fulmini Diran che Dio ancor č!_ _Pur se le destre s'ergono Sincere a me tuttora, Se rei pensier non serbano Pių in vostro cor dimora, Se torna altrui benefico De' figli miei l'oprar, Credete voi ch'io sappia Miei figli sterminar?_ _Oh! se a pupilli e vedove Esser vi veggio scampo, Venite a me: le folgori Non seguiranno il lampo: E fosser come porpora Sanguigne l'alme pur, Al par di neve candide Le rivedrā il futur!_ Quelle or minaci or tenere Parole d'un Iddio Scosser Giustino, ed avido Le carte allor seguėo; E giorno e notte al mistico Libro lungh'ore ei dič: Novi conobbe gaudii; Amō, sperō, credč. A mastri e condiscepoli De' suoi passati errori, Move, ed in pria l'accolgono Con risi e con furori: Stupiscon poi del placido Suo forte ragionar; Miransi, e forse pensano: ŦFilosofo ancor parŧ. Ed ei coll'invincibile Possa del dir verace Eccita santi aneliti Di caritā e di pace: Pių d'un mortal da glorie Superbe visto fu Trar con Giustino all'umile Scïenza di Gesų. Invano, invan rammentano Vigliacchi amici al forte, Che della Croce ai nunzii Leggi minaccian morte: Invano a lui, se i vizii S'ostina a maledir, Tremanti vaticinano Scherno, prigion, martir. --ŦOh mal pietosi e timidi! Risponde al caro stuolo, Sappiate che un orribile Martirio esecro solo, Quel che patii nel misero Mio giovanile error, Quando tra fedi varie Mi vacillava il cor. ŦAl vero nata l'anima Nel dubitar si snerva; Quindi a sospetti ignobili Fatta ogni dė pių serva, Discrede l'amicizia, Discrede ogni virtų; Nessun eccelso palpito Suoi giorni abbella pių. ŦMa, dacchč i vili dubbii Cacciai dall'intelletto, E potei diva accogliere Filosofia nel petto, Dacchč imparai qual abbia La vita alto valor, E affratellato agli uomini Conobbi il Redentor; ŦIo da quel dė mi pascolo Di forza e di speranza, E questa č gioia intrinseca Che tutte gioie avanza: Il vivere emmi grazia, Grazia mi fia il morir; Uom mi potrebbe estinguere. Ei non puō Dio rapir!ŧ Il predicar fulmineo, I trionfanti scritti Prima fur detti insania, Poi detti fur delitti; Ed ecco il pio filosofo In ceppi rei giacer: Eccol d'iniquo giudice Gl'insulti sostener. --ŦChe ti giovar gli stolidi Del Nazareo costumi? Se brami scampo, ossequio Presta ad Augusto e a' numi: Mira per quei che agl'idoli Incenso negan dar, Mira i parati eculei, Mira i flagei d'acciarŧ. Non si smentė nell'ansia Della terribil ora; Mostrō come un Apostolo Opri, patisca e mora: Al giudice, a' carnefici Perdono oppose e amor, Ed il sublime esempio Nobilitō altri cor. Venner con lui dal carcere Ai barbari supplici Intemerata vergine E cinque eletti amici: La giovin fra gli strazii Un gemito mandō; Giustin mirolla, e impavida Gli strazii sopportō [1]. [1] Con S. Giustino furono martirizzati cinque suoi amici ed una fanciulla per nome Caritana. SAN CARLO. Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis. (_Ioh_. 10, _v_. 11). Oh! quanto degno č di fiducia un grande Di pietā e sacrificii operatore, Che fu debol mortale, ed ammirande Forze trovō nel suo sublime amore! Fama antica non č che voci espande Sovra Carlo, d'Insubria almo Pastore; Ei visse quasi ieri, e sue pedate In tutto il suol natėo sono stampate. E perocchč de' secoli non volve Oscura nube di sua vita i fatti, Dir non possiamo: ŦEra d'un'altra polve, Era di tempi al dolce errar men attiŧ. Dir non possiam: ŦNoi tal etade involve, Che irresistibilmente al mal siam trattiŧ. Ma ravvisiam come in orrendi tempi Possan pur di virtų fulgere esempi. Sotto il tempio gigante di Milano Un delubro contien la sacra spoglia; Colā viene il devoto da lontano, E de' commessi falli si cordoglia, E fede ha ch'ivi niun pregar sia vano, E torna speranzoso alla sua soglia; E narrato č di cuori, un dė perversi, Che furono per sempre al ciel conversi. Talora a quel delubro io discendea Dubbio su tutto, e quasi su Dio stesso, E lung'ora solingo ivi gemea Da sciagurate passioni ossesso, Poi vedea mover gių dalla scalča Il poverel da' suoi malori oppresso, Ch'appo il corpo del Santo s'inchinava, E di lui la beata alma pregava. La fč del poverello io con dolcezza Invidiando, era commosso al pianto, E vergognava della ria stoltezza Che sovente di senno usurpa il manto; E allor tutta splendeami la bellezza Del culto ch'elevar puō l'uom cotanto; E Carlo io pur pregava, e in me largita Tosto sentėa di maggior fede aita. Sempre onorai quel forte: ad onoranza M'astringon que' magnanimi mortali, Ch'osano concepir l'alta speranza Di sveller d'infra il mondo orrendi mali; Ch'osan, non per vendetta od arroganza Contro a poter di soverchianti eguali, Ma di Dio per amore e delle genti Confonder dell'iniquo i rei contenti. Di Carlo a' tempi, vïolenza e orgoglio Spesso ne' sommi e oscenitā regnava, E de' vili costumi il turpe loglio Indi pių nella plebe pullulava; Innocenza per tema e per cordoglio Da ogni parte ascondeasi e palpitava, E se la raggiungea braccio nefando, Irrugginito era di legge il brando. E perchč inetta era la legge ultrice, L'uomo spogliato del paterno avere, E il padre della vergine infelice Che a lui rapita avea truce potere, Fean la propria lor destra esecutrice Di cieche stragi e di perfidie nere, E in mezzo al sangue gli uomini cresciuti L'ire feroci esser credean virtuti. E per maggior calamitā d'allora Premeano Italia immiti ferri estrani, Onde tra parte e parte ardean tuttora Pių frequenti gli oltraggi e gli odii insani; E perchč il volgo stolido peggiora Quando vien retto da esecrate mani, La podestā straniera incrudelėa Quanto pių il volgo oppresso l'abborrėa. E in sė gravi sciagure, onde cotanta L'ignoranza e l'obblio dell'Evangelo, Anche la schiera che dovrėa pių santa Sfavillar, perchč interprete del Cielo, Campioni egregi aveva, sė, ma oh quanta Feccia sol mossa a farisaico zelo, Inimica di Roma, e sovvertente Co' rei costumi ipocriti la gente! Su' tristi giorni suoi Carlo fremea: Data non gli era onnipossente mano, E pur argin gagliardo imporre ardea A quel di vizi orribile oceāno. Non disperō della sublime idea, Il soccorso affidandol sovrumano, Vide ch'altri giovar uomo puō sempre, Se a virtų somma sč medesmo tempre. Dio benedisse quell'eroica brama, Il suo servo su molti altri estollendo, E tal gli die di giusto Presul fama, E linguaggio amorevole e tremendo, Che, mentre de' perversi ad ogni trama Fu visto questi oppor senno stupendo, Ad amarlo costretti o a paventarlo, Tutti il messo di Dio scerneano in Carlo. Chč se rigore e dignitosa vita Il Vescovo integerrimo imponeva, Ei pria mollezza avea da sč sbandila, E co' poveri il pan condivideva, E l'austera sua mente era addolcita Da quel sorriso che gli afflitti eleva; Co' superbi terribile soltanto, D'ogni infelice intenerialo il pianto. Del paterno suo cor fur monumento Ospizi per famelici ed infermi, E istituti ove sprone ed alimento! Dato venia d'intelligenza a' germi, E il suo forte, moltiplice intervento, Ove occorrean contr'ingiustizia schermi, E l'impulso ch'ei diede a' patrii ingegni Verso i nobili fatti e i pensier degni. Sua immensa caritā, suo santo ardire Suscitogli appo il trono alti nemici; A impudenti rampogne, a spregi, ad ire, Grida si mescolar calunniatrici: Nudrir fu detto scellerate mire, Tutti i dolenti a sč facendo amici; Dei regi udissi schernitor chiamato, Che il lituo avea sopra gli scettri alzato. Lasciava ei che la collera stridesse. E della Chiesa ognor sostenne il dritto: Finchč vestigi sulla terra impresse Contro a sč vide mosso empio conflitto; Ma se alcun della grazia ai lampi cesse, Con gioia obbliō Carlo ogni delitto; E spesso tal, che pių l'aveva offeso, Alfin d'amor per lui sentiasi acceso. Gl'implacati di Carlo abborritori Quai tra' mortali furo? I farisei! La pių abbietta genėa di traditori! Color che in ogni etā sono i pių rei! Color che della Chiesa ambėan gli onori, Poi core e mente ribellaro a lei! Que' sacerdoti che fautor si fanno Di sfrenatezza eretica e d'inganno! Chi č quell'infelice maledetto Che porta in fronte i torvi occhi di Giuda, E come Giuda si percuote il petto, Perchč pių in rimirarlo altri s'illuda? Schiavo sempre viss'ei d'iniquo affetto? Di virtų l'alma ebb'egli sempre ignuda? O dopo aver d'amor di Dio avvampato, Cadde e non sorse, ed a Satān s'č dato? Per quai sequele di misfatti orrende Scritte nel libro degli eterni guai, Dove cancellatrice pių non scende Del sangue di Gesų stilla giammai, Un mortifero bronzo oggi egli prende, E d'empia gioia brillano i suoi rai? A' rei socii sorride, esce del chiostro, E l'arme sotto il manto asconde il mostro. Sė! del truce delitto ei socii avea! Ed appunto i supremi del convento! Eran tre questi indegni, e li stringea D'infernale amicizia giuramento. Lor chiostro che di santi un dė fulgea, Fatto avean di turpezze abitamento. Ministro e amico loro astuto e forte Era colui che or volge opra di morte. Uscito appena il perfido omicida, Guardansi e impallidiscono i preposti, E un di costoro all'assassino grida: ŦRiedi! il sappiam che intrepido ognor fosti; Questo novo cimento or mal t'affida; Riedi! sii obbedïente a' cenni imposti!ŧ Ma in covil di superbia e di licenza Vano e risibil nome č obbedïenza. ŦAhimč! questi prorompe, ei non m'ascolta! Che faceste, o compagni, a suscitarlo? Gagliarda fu l'offerta sua, ma stolta, Di tor dal mondo l'esecrato Carlo. Sempre scherniste di dolore avvolta La presaga alma mia, ma il vero io parlo: Tanto di colpa in colpa osi vi feste, Che omai l'abisso a tutti noi schiudesteŧ. ŦCodardo! esclama un de' compagni; pensa Che ognor la sorte al nostro messo arrise; La sua destrezza in tutte imprese č immensa, E altre volte le man di sangue ha intrise. Move or egli ad oprar fra turba densa, E fian le menti da terror conquise, Sė che non arduo esser gli dee celarsi, E illeso nelle tenebre ritrarsiŧ. Il terzo ostenta egual baldanza, e dice: ŦPurch'egli atterri il Vescovo odïato! S'anco andasse scoverto l'infelice, E in ferri tratto, e a morte strascinato, Chi potrā dimostrar ch'eccitatrice Fosse la nostra voglia all'insensato? Al venerevol Carlo inni alzeremo, E il suo uccisor cogli altri imprecheremoŧ. Intanto l'omicida affretta il passo, E sui preposti a sogghignar si sforza; Sembragli il loro cor vigliacco e basso, Quand'č pių d'uopo irremovibil forza; E dice: ŦIo ben son certo che a me lasso, Se la prospera stella oggi si smorza, Intenti solo ad evitar lor danno, Costor l'amistā mia rinnegheranno. Spero che gioïrō di mia vittoria, Ed eroe da lor labbra udrō chiamarmi! Quel Carlo ch'ogni nostra ascosa istoria Investigare osava e minacciarmi, Vedrā come del lituo anzi la boria Per la salute del mio chiostro io m'armi! Ma s'io perir dovessi?... oh allora tutto Meco trarrō l'empio convento in lutto!ŧ Giunge il ribaldo al vescovil ricinto, Ed ascende al tempietto, ove il Pastore, Da' famigliari sacerdoti cinto, La preghiera seral porgea al Signore. Ivi d'oranti assai stuolo indistinto Pïamente con esso effondea il core: Palpita mal suo grado l'omicida, E ancor ŦTi penti!ŧ l'angiol suo gli grida. Ma soffocō tutti i rimorsi, e rise Dell'angiol suo e di Dio, come di larve. Con ira gli occhi sovra Carlo affise, Ed esecrando zelator gli parve. A liberarne il mondo si decise, E certo il proprio scampo gli trasparve; Allo scoppiar dell'avventata morte Ratto balzar fidava oltre le porte. Salmi sciogliendo il Presul benedetto, Quel nobil verso di Davėd dicea: ŦNon si turbi, nč tremi ora il mio petto!ŧ Quand'ecco sfolgorar la canna rea. Al fero tuono, ognun d'ambascia stretto Dal suol sorgendo, ŦOv'č il fellon?ŧ chiedea. Da tergo il colpo giunto era su Carlo, E, oh prodigio! non valse ad atterrarlo. ŦNon si turbi nč tremi ora il cor mio!ŧ Con ferma voce ripigliō il Prelato, E in ginocchio rimase a lodar Dio, Ed a pregar pel mostro sciagurato. S'udė questi ulular: ŦPreso son io!ŧ E il giorno maledire in ch'era nato, Ed il padre e la madre, e pių il perverso Chiostro, ov'ei s'era in tutti vizi immerso. Taccia il mio carme le bestemmie atroci Del traditore e l'infernal suo riso, Quando mirō degli abborriti soci, Appo i supplizi, impallidito il viso; E taccia come, anco all'estreme voci, Ei sperar ricusō nel Paradiso: L'alma sua dal carnefice spiccata, Fu dal re dei demon presa e baciata. Benchč mirasse nel suo clero istesso Carlo intelletti perfidi cotanto, Lo sperante suo cor non fu depresso, Ma allor anzi doppiō di zelo santo; Non ebber pių nel santüario accesso Tai che d'avi o d'ingegno avean sol vanto; Purificata ei la lombarda Chiesa Volle ed ottenne, ad alti esempli intesa. Mentre corregger egli e sublimare I suoi tempi ed i posteri anelava, E in peste orrenda visto fu esemplare Di pietā fra la turba afflitta e ignava, E in nessuna miseria il casolare Del poverello ei mai non obblïava, Pur non tacea di basse alme lo sdegno, Ed era ei spesso ai vilipendii segno. La luce de' suoi fatti alle sincere Menti dimostra qual mortale ei fosse; E quando ascese alle superne sfere, Confusa alfin calunnia ammutolosse. Della Chiesa ogni santo condottiere Sovra l'orme di Carlo indirizzosse, Ed oggi ancor sulle lombarde rive Delle virtų del Grande il frutto vive. Io nulla son, ma ad onorarti appresi, E so che sei possente appo il Signore, E con fč al tuo sepolcro mi prostesi, Ed il pensare a te m'innalza il core: Odimi, Carlo, e i miei sospiri accesi T'abbian per me ne' cieli intercessore! Delle giust'opre caldo amor chiegg'io, Chieggio vederti un giorno in seno a Dio! Tra gl'Itali non v'ha petto gentile, Cui söave non sia la rimembranza Di pastor sė benefico all'ovile, D'uom ch'agli altari dič tanta onoranza. Chi, solcando il Verban con petto umėle, Non mirō intenerito in lontananza L'antica Arona, ove le limpid'acque Lietamente dir sembrano: ŦEi qui nacque!ŧ In anni oggi remoti e sempre cari, Quell'amabil pur fei pellegrinaggio. Gli ultim'astri fulgean tremoli e rari, Perocch'era una prima alba di maggio, E sui monti segnava oggetti vari Impallidito della luna il raggio, Finchč cedendo a luce pių gioconda, Pių languidetta in cielo era e nell'onda. Ed allor sulle cime orïentali Rosseggiavan leggčre nugolette, E spuntavan del sole i dolci strali, Qua e lā indorando le contrarie vette; Ed i fiotti del lago or dianzi eguali S'increspavano al tocco delle aurette, E nel lor fasto signorile e vago L'isole risplendeano in mezzo al lago. E le spiagge lunghissime e distanti, E le molli e le ripide pendici Mostravan con moltiplici sembianti I lor tugurii poveri e felici, E i campanili de' tempietti santi, Ove giā del mattino ai sacri uffici Del vigil bronzo l'eccheggianti note Chiamavan le rideste alme devote. Oh quali eran miei palpiti veggendo Arona, verso cui pių concitati Dal desiderio andavano battendo I remi de' nocchieri affaticati! Colā s'innalza, e sta benedicendo Colossale un'effigie i lidi amati: L'effigie del Pastor, per cui d'Arona Benedetto nel mondo il nome suona. Su quell'alto colosso eran mie ciglia Lungamente fissate da lontano, E quella fč che a tutto il cor s'appiglia Da me espelleva ogni pensier profano. Parea al mio spirto pien di maraviglia, Che il Santo stesso, alzando ivi la mano, Accennasse di Dio le creature Benedir tutte, e benedir me pure! Come allora, oggi esclamo con affetto: Proteggi, o Carlo, la Lombarda terra, Ed ogn'Itala sponda, ed ogni petto, Ovunque ei sia, che preci a te disserra! Se germe č in noi di ben, rendil perfetto, All'opre vili insegnaci a far guerra, Veglia su noi qual padre, ed i tuoi figli Sprona e guida a vittoria infra i perigli! SANTA FORTUNULA. Bonum certamen certavi. (_Tim. II_. 4.7). Ed a te pur, Fortunula immortale, La fronte mia s'atterra. Deh! chi sarā che ne discopra quale Vivesti in sulla terra? Nulla di te sappiam, fuorchč il bel nome E la tomba che il porta, E a chiari indizi di martirio, come Per nostra fč sei morta. L'ossa inadulte e il teschio venerando Sembran dir che donzella Eri trilustre, allor che iniquo brando Svenō tua salma bella. Forse del padre e della madre amata Che per Gesų moriro, Piangendo sul sepolcro, indi infiammata Sentivi te al martiro; Nč senza loro, e senza il paradiso Pių viver, no, potesti, E magnanima gl'idoli hai deriso, Ed ai leon corresti. Forse malgrado genitori insani Che con minacce e grida, E con tenere lagrime e con vani Spregi voleanti infida, Dal lor sen con angoscia ti strappavi Per abbracciar la Croce, E spirando al battesmo li invitavi Con amorosa voce. E forse allora e padre e genitrice Commossi al detto caro, Sclamavan: ŦSiam cristiani!ŧ e la cervice Porgeano all'empio acciaro. E forse della vergine alla morte, Tal, che sue nozze ambėa, Eternamente farsi a lei consorte Volle, e con lei morėa. Noi pure eternamente in ciel vederti, O vergin, sospiriamo, E il pregarti n'č gioia, ed esser certi Che in te un'amica abbiamo. Due menti pie tua spoglia hanno raccolta E tratta a queste sponde, Ambe quell'alme a te devote ascolta, E sien per te gioconde. E chiunque a Fortunula s'inchina Gentile ottenga un core Che lieto porti alla beltā divina Immensurato amore! E le afflitte, scampate appo quest'ara Dalle mondane frodi, Obbliin lor pene, celebrando a gara Di te, di Dio le lodi. SANTA FILOMENA. Laudate Dominum in sanctis ejus. (_Ps_. 50. 1). Vidi sembianti di disdegno accesi, Quando dapprima infra devoti cuori Nome sonar di Filomena intesi: E chiesta la cagion di tai rancori, Udii fremiti alzar, che cosė poco L'unico Ver, l'unico Iddio s'onori! ŦPerchč, gridavan con alterno foco, Perchč non al Signor dell'Universo, Ma a novelli suoi santi ognor dar loco? ŦCulto quest'č risibile e perverso! Secoli di barbarie lo foggiaro! Distruggerlo omai dee secol pių terso!ŧ De' corrucciati al querelarsi amaro Applaudiron taluni, ed applaudendo Senno svolger sublime essi agognaro. Io non capii qual fosse lo stupendo Argomentar di quegl'ingegni acuti, E meditai, nč tuttodė il comprendo. Alla luce del Bel mi sembran muti, Se stiman colpa o ignobiltā un amore Portato a petti in santitā vissuti. Nč so perchč sia di barbarie errore L'aver per sacre l'ossa di que' forti, Che a noi lasciār d'alta virtų splendore; Nč scorgo quale al nostro secol porti La Chiesa oltraggio, quando ancor favelli D'egregi estinti, e ad imitarli esorti; E n'esorti a pensar che vivon quelli Non senza possa al Re del Cielo amici E lor pietate ad invocar ne appelli. A te, Religïon, credo che il dici, Ma se tacessi, anco ragione il grida: Anzi al Giusto si curvin le cervici! Io cosė sento, e quindi appien m'affida Ogni defunto sugli altari alzato, Bench'altri al volgo me pareggi, e rida. E m'affida ogni tumulo illustrato Da indubitati segni, in cui ravviso Ch'ivi hann'ossa di martir riposato. Chč, se storia pur manca onde provviso Venga al desėo dei posteri, a me basta Nome d'ignoto assunto in paradiso. Il caro nome tuo solo sovrasta Evidente alla terra, o Filomena, Ma indarno inclito onor ti si contrasta. Parla il tuo avello, e d'alta grazia č piena L'ampolla di quel sangue che spargesti Per Gesų, in chi sa qual crudele arena! Sensi di fč, d'amor si son ridesti In color cui tue spoglie e il venerando Tuo dolce impero il Cielo ha manifesti. Sensi di fč e d'amore, e donde e quando Cessaron d'esser palpiti gentili, Che a bassi affetti inducono a dar bando? Ah no! Color che ad una Santa umėli Porgono omaggio, memori ch'č santa, Pronti non sono ad opre e pensier vili! Nel memorar somme virtudi, oh quanta Riconoscenza per quel Dio si sente Che alzō i mortali a dignitā cotanta! Il tuo sepolcro a questi dė presente Ne dice, Filomena, alti dolori Pel vero sostenuti arditamente. Nč discreder possiam che tu avvalori Di quei la prece che, a te innanzi proni, D'aver simile al tuo chieggon lor cuori. Nč mi prende stupor se forse a' buoni Sembrō in lor sante visïoni udirti, E imparar di tua morte le cagioni, E se degnando alle lor brame aprirti, Ottenesti da Dio che in premio a fede S'annoverasser fra i pių eccelsi Spirti. Infelice quel torbo occhio che vede Ne' culti, nostri amanti e generosi Frode o stoltezza, e accorto indi si crede! Alma beata, impetra che siam osi D'amarti e benedirti infra gli scherni Degl'intelletti freddi e burbanzosi. Ispirane il desėo de' lochi eterni, E anco i nemici tuoi vinci ed ispira! Chiedi al Signor che tutti noi governi Luce di caritā, non luce d'ira! LA BENEFICENZA. Esurivi enim, et dedistis mihi manducare. (_Matth_. 26.35). Mentre tanti di nome e d'ōr potenti Volgono a vanitate e nome ed oro, Nč a taluni pių bastano i contenti Che sulla terra Iddio concede loro; Mentre a meglio goder cercan furenti La propria gioia nell'altrui disdoro, Simili a falsi Dei d'etā lontane Che a' lor piedi volean vittime umane; E mentre mirando Que' ricchi malvagi Il volgo fremente Che invidia lor agi, Esagera, infuria, Invoca dal Ciel Su tutti i felici Sanguigno flagel; Que' flagelli rattiene il ricco pio Che riparar gli altrui misfatti agogna, E oprando assai per gli uomini e per Dio, Anco d'essere inutil si rampogna: Degl'innocenti aiuta il buon desėo, Gli erranti tragge a salutar vergogna; Onora l'arti ed anima l'artiero, E chiamar vorrėa tutti al bello, al vero. Il volgo commosso Ripensa, si calma, Capisce che il ricco Puō aver nobil alma: Insegna a' suoi figli, Che pace e lavor Del povero sono Salute e decor. Salve, o di caritā sacra fiammella Che accendi il cor del pio dovizïoso! Se a noi mortali fulgi or cosė bella, Qual fulgi tu dell'anime allo Sposo? A lui che, tutte mentre a sč le appella, Le appella a mutuo affetto generoso! A lui che quando cinse umano velo, Ci palesō che tutto amore č il Cielo! Amore santifica Tesori e palagi, Amore santifica Tuguri e disagi; Amor sulla terra Puō tutto abbellir, L'impero, il servire, La vita, il morir. Amato molto, amato sia il Signore Ch'č modello de' ricchi impietositi! Amato molto, amato sia il Signore, Modello ai cuori da sventura attriti! Amato molto, amato sia il Signore Che noi vuol tutti alla sua mensa uniti! Amato molto, amato sia il Signore Che per l'anime umane arde d'amore! Oscuro o potente, Di Dio tu sei figlio, Fratello degli Angioli, Ancor che in esiglio! Gran fallo ci avvolse Nel fango e nel duol: Amiam! ci fia reso Degli Angioli il vol! UNA DONNA. Quoniam mulier sancta es et timens Dominum. (_Judith_. c.8.29). Nota č a me sulla terra una mortale Che dal Ciel tutti i doni ebbe pių chiari: Poch'alme han forza d'intelletto eguale, E fior dal meditar colgon sė rari: S'alza di fantasėa su fulgid'ale, E a' pių posati ragionanti č pari: Pronta discerne il ver, pronta l'addita, E tanta luce č da umiltā addolcita. Cinta ell'č di ricchezze e di splendore, E le aggradano brio, riso, favella; Tutte potrebbe del suo viver l'ore Incantar con magėa sempre novella: Par che delizïato il suo bel core Ogni affannoso sentimento espella; Ma questa d'eleganti arti regina Nutre d'egregi fatti ansia divina. E color che l'ammirano raggiante D'ingegno e grazia in suoi ridenti crocchi. Ignoran che fissati ha poco avante Sopra miseria spaventosa gli occhi; Che sua candida man dianzi tremante Alzō il mendico prono a' suoi ginocchi; Che il delicato pič stanco or riposa D'aver recato ad egri aïta ascosa. De' suoi giorni in sull'alba acerba morte Rapito a lei la dolce madre avea; Ma il padre in sen chiudeva anima forte, Anima avversa ad ogni bassa idea: Ei della figlia le pupille accorte Volgere a desideri alti sapea: Pensante crebbe, e in ogni tempo ambėo Il sorriso del padre e quel di Dio. Data fu la sua destra a mortal degno Di tesauro sė bello e invidïato. Lontana dal natėo, gallico regno, Mosse al diletto suo compagno a lato: Non mirō i novelli usi con disdegno, Non portō di straniera orgoglio usato: Amō la nova patria, amō l'antica, Visse de' giusti d'ogni lido amica. Il livor de' volgari alla gentile Perdonō l'esser nata in altre sponde, Tanto le piacque farsi a noi simėle Avvezzando le sue labbra faconde Non solo al bel, sonante italo stile, Ma al dïaletto che di Dora all'onde, E in tutte le dolci aure subalpine, Bench'irto, par che ad amicizia inchine. Ai genitori dell'amato sposo Abbellė reverente i vecchi giorni, Perō che ognor fu suo pensier pietoso Che da nostr'opre gloria al Signor torni, E da noi con amor religïoso La voce del vicin di rose s'orni, E dal Ciel maggiormente al dolce sesso Recar sollievo altrui venga commesso. Ma a costei non bastava entro sue mura Spander pietā, sorriso, amore e pace: Dello spettacol dell'altrui sventura Nel petto le scendea duol sė verace, Che santa spesso l'assalėa paura D'appagarsi in virtų scarsa e fallace: Pareale ch'a indigenza oro gittando, Poco pur sia di caritā al comando. Allor si fu che a visitare assunse Il tugurio di gioia derelitto; Allor si fu che pių desėo la punse Di commoversi al gemer dell'afflitto; Allor, com'angiol, fra i sospiri giunse Di tapine espïanti il lor delitto; Allora, insieme a facil don, largiva Fatiche, ambasce, caritā pių viva. Per alcun tempo di celar s'impose Ai leggeri del mondo i passi santi: Non giā che paventasse le vezzose Celie dell'alme vili ed inamanti, Ma perchč vereconda ella ognor pose L'orme sue pe' sentieri al ciel guidanti: Poi cotal luce sue bell'opre diero, Che ad alcun pių sottrar non si potero. Fra i tristi cuori ond'era impietosita S'annovravano quei delle infelici, Che, sebben colpa in lor venga punita Da universale scherno e leggi ultrici, A risorgere ancor bramano aïta, E affetti serban di virtute amici: Men proprii falli che gli altrui talvolta Pių d'una d'esse han nell'obbrobrio avvolta, In pria delle dolenti incarcerate Si fe' consiglio, e al lor governo diessi: Da lei furo ivi pene allevïate, E di religïon gaudii concessi: Furon le trepidanti alme incorate, E talor vinti i cuor pių duri istessi: Dove eran pria disordine e furore, Addusse pace e penitenza e amore. E non fugaci benefizi questi Brillār di caldo ma incostante petto: Riede ogni giorno in quegli alberghi mesti, E vi sparge opportun, söave detto. Acqueta ivi gli spirti ad ira presti, Ispira cortesėa col dolce aspetto: Il sincero ammendarsi o loda o sprona, E i migliorati cuori guiderdona. Ma pur fuori del carcere infinite Donne e fanciulle in duol veggionsi immerse, Che per amor falliro e fur tradite, Ed ahi! di fama pių non vivon terse. Rïalzarsi vorrėan, ma da inaudite Sorti vittima son d'alme perverse: Sottrarsi anelan da periglio ed onta; Ov'č una destra a sostenerle pronta? Tal destra ecco a lor tendersi! ed č quella D'una mortal, che, siccom'angiol monda, Pur contro al suo decoro non appella L'inchinarsi a infelice vagabonda, L'udirla con dolcezza di sorella, L'aprirle un tetto ove il suo pianto asconda. D'afflitte ed oltraggiate a molta schiera Quel pio rifugio č di virtų carriera. Non somiglia a prigion, non č prigione; Ad entrarvi le ree non son costrette: Nč quelle, che invocata han tal magione, Ivi da forza fremon quindi strette. Asilo č d'alme per rimorso buone, Che lavorano e gemono solette, E pregano il Signor pel mondo tristo, Che il lor fallir con empio scherno ha visto. Poscia che fu quel mite albergo eretto Per pensier della donna generosa, Provvide ella che attiguo un altro tetto Sorgesse a secondar vaghezza ascosa D'ammendate, che in velo benedetto L'anima aver chiedeano a Gesų sposa: Un solo tempio i duo ricovri unisce, E il mutuo canto i lutti ivi addolcisce. Talor io di quel tempio in segregata Parte mi prostro, e mesco i preghi miei A quelli della pia turba scampata Dalla pietā operosa di colei. L'anima mia a quel canto si dilata, E occulto piango su miei giorni rei; E in cotal donna ad altri spirti duce Ravviso anco per me celestial luce. Nč quest'amica degli afflitti cuori, Per ritrarli all'altezza del Vangelo, Li circonda di spregi e di rigori, Si ch'ognor tremin, quasi in ira al cielo: Del pentimento ai nobili dolori Vuol congiunta speranza e amante zelo; Vuol quella santa ilaritā tranquilla, Per cui la Croce maggiormente brilla. Certo, ell'avea le inique voci udito Contro a religïon vibrate spesso: Che selvaggia sia questa, ed avvilito Cada, se a lei si volge, un cuore oppresso; Mostrar quindi la saggia ha statüito, Che fede e cortesia si danno amplesso, Che penitenza e consolante riso Ponno concordi alzarci al Paradiso. Ah sė! caratter questo č ben del vero, E sol di Cristo nella legge splende! Che in chiunque a virtų mova sincero, Santificati e duolo e gaudio rende: Retta č la via del penitente austero Che ne' deserti caritade accende: Retto altresė, purchč temprato e pio, Č il civile consorzio innanzi a Dio. Onore ai forti Anacoreti! e onore A tali, che bensė reggon la Croce, Bensė il proprio e l'altrui piangono errore, Nč ignoran di mestizia il carco atroce, Ma rimangon nel mondo, e con amore Spandendo van religïosa voce! Duo son diversi modi, ambo divini, Per cui l'uomo al Signor si ravvicini. L'ammirata da me soccorritrice, Mentre al Signor ravvicinare anela Adulta moltitudine infelice, Pur di bimbi plebei prende tutela; Perocchč padre indarno e genitrice, Che faticando tutto il dė trafela, Vorrėa de' meschinelli assumer cura, E, negletta l'infanzia, ahi! si snatura. Memore che sė cari il Dio umanato Dichiarō i pargoletti ond'era cinto, La pia nel proprio ostello ha radunato Stuol di fanciulli in duplice ricinto, Ove, mentre sostegno al corpo č dato, Viene a virtų il crescente animo spinto, Vigilando colā vergini umėli Ad addolcire i palpiti infantili. Intanto, pur allor che senza asprezza Un cor religïon fervido porta, Consüetudin mai di vil mollezza, Nč per sč, nč per altri unqua sopporta. Poco gl'incanti della vita apprezza Chi di celeste amor l'alma conforta: Giorni in secreto mena penitenti, E se bello č il rischiar, corre ai cimenti. Questa donna vegg'io quindi nel tristo Tempo in cui Dio l'indico morbo scaglia Trarre agl'infermi ad onta del previsto Pericolo che a molti il cuore ismaglia. Compiange, esorta, ajuta, e volge a Cristo Chi in angoscia di morte si travaglia, Poscia a piangenti vedove e orfanelli D'orrenda povertā tempra i flagelli. In tai fatiche ed in quell'aure infette Langue della gentil la debol salma, Ma sinch'altri giovar Dio le permette, Ella non osa a sč conceder calma: Il benevol desėo forza le mette, E sua fiducia dal Signore ha palma: Dolora, ma prosegue, e con sant'arte Altrui suoi patimenti asconde in parte. Tal esser puō sė fievol creatura, Qual č donna cresciuta a splendid'agi, Quando al lume del Ciel che l'assecura, Pace e gloria non pone in bei palagi, E rammenta che un Dio prese figura Di poverello, e visse infra disagi, E di lui ne assevrār le labbra sante Che in ogni afflitto Ei stassi a noi davante! Tal esser puō, restando pur nel mondo E in convenevol, fulgida eleganza, Chi nutre del Vangel senno profondo, Chi gode esser di Dio fatto a sembianza, Chi sa che spirto uman d'opre fecondo Non dee in van'ombre usar la sua possanza, Ma in amar Dio! ma in dimostrargli amore, Sempre sacrando all'altrui bene il core! LE SALE DI RICOVERO. Qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit. (_Matth_. 18.5). ŦSon pargoletto e povero e ammalato; Abbi pietā di me, Gesų bambino, Tu che sei Dio, ma in povertā sei nato! Me qui lascia la mamma ogni mattino Nel solingo tugurio, ed esce mesta Il nostro a procacciar vitto meschino. Ancella move a quella casa e questa, Ed acqua attinge e lava e assai si stanca, E vive appena, ed indigente resta. Qui soletto io mi volgo a destra, a manca, Senza dolcezza di parole amate, E fame ho spesse volte, e il pan mi manca. Le melanconich'ore prolungate M'empion l'alma di pianto e di paure, E mi sfogo in ismanie sconsolate. Amor la madre assai mi porta, e pure Quando al tugurio torna e pianger m'ode, Spesso le voci sue prorompon dure; Talor mi batte, e duolo indi mi rode, Sė che allor quasi affetto io pių non sento, E in maligni pensieri il cor mi gode. Povera madre! il viver nello stento Estingue nel suo spirto ogni sorriso, Ed anch'io pių cruccioso ognor divento. Gesų, prendimi teco in Paradiso, O tempra la tristezza che m'irrita, E rasserena di mia madre il viso: Fa ch'ella trovi ad allevarmi aïta, Fa che deserto io non mi strugga tanto, Fa che un po' d'allegrezza orni mia vita. Se ad altri bimbi io respirassi accanto, E non sempre gemessi, e qualche mano Söavemente m'asciugasse il pianto, Crescerei pių benevolo e pių sano, E pių caro alla madre io mi vedrėa: Lassa! altrimenti ella fu madre invano! Ella al mio fianco in pace invecchierėa, E per essa con gioia adoprerei A laudevol sudor mia vigorėa. Le poche forze ai patimenti rei Soggiaceranno in breve, e, fuorchč pena, Nulla i miei giorni avran fruttato a lei. Ovver, se presto a morte non mi mena Tanta miseria, crescerō doglioso, Me coll'afflitta madre amando appena. Ed ella pur mi dice che odïoso Il povero alla terra e al ciel rimane, Quando alle brame sue non dā riposo, Quando coll'ira in cor mangia il suo pane. Ed ecco del bimbo La mamma ritorna: Č stanca, ma un raggio Di gioia l'adorna; S'asside a lui presso, Lo stringe al suo sen. ŦOh quanto sinora Mi dolse, o figliuolo, Lasciarti ogni giorno Sė tristo, sė solo! T'allegra: celeste Soccorso a noi vien. ŦNell'ore ch'ai figli Non ponno dar cura Le madri, cui preme Fatica e sventura, Da provvide menti Ricovro s'aprė. Alquanto risana, E lā tu verrai: Son piene due sale Di pargoli omai: Giocando, imparando, Vi passano il dė. ŦAl santo pensiero Che aprė quel ricetto, Ministre si fanno Con tenero affetto Pių vergini umėli, Sacrate al Signor: Null'altro che amarti, Il sai, potev'io, Ma quelle söavi Ancelle di Dio Pių dolce, pių giusto Faranno il tuo cor. ŦIo, conscia che al figlio Non manca un'aïta, Trarrō senza pianto Mia povera vita, L'usato lavoro Stimando leggčr. Al tetto materno Verrai verso sera, E sempre alzeremo Concorde preghiera Per l'alme pietose Che asilo ti dierŧ. Quel fanciulletto giā infermiccio e tristo, Indi a non molto, in sė benigna scuola, Rosee le guance e lieti i rai fu visto. Oh d'amorose labbra la parola Quanto a' cuori avviliti, e pių a' bambini, Addolcisce le doglie e li consola! D'entrambo i sessi i pargoli tapini Ivi sottratti vanno a rio squallore, Ed a costumi stolidi e ferini. Che invan vorria la madre o il genitore Occhio assiduo tener sui cari pegni, Qua e lā faticando per lungh'ore. Abbandonati a sč, crescere indegni Veggionsi quindi d'assai plebe i figli, Egre le membra ed egri pių gl'ingegni. Per cadute e per cento altri perigli Vedi qual di storpiati e di languenti Esce turba da' poveri covigli! Quanti avrian le persone alte e ridenti Ch'essi strascinan luride e contorte, Perchč guaste d'infanzia agli elementi! Oh benedetti voi che sulla sorte Della schiatta plebea v'intenerite, E pensate a scemarle e vizi e morte! In voi sė belle le grandezze avite Non son, quant'č il magnanimo disėo, Onde a tanti innocenti asilo aprite. Memori siete di quell'Uomo-Iddio Che, cinto da drappel di bambinelli, Li confortava col suo sguardo pio, Ed imponea d'assomigliare a quelli. E voi benedette, Donzelle pietose, Che al Dio de' bambini Facendovi spose, Di madri assumete Le pene e l'amor. Per voi dalla terra Piacer non alligna: Fors'anco taluno Vi guarda e sogghigna, Vi chiama delire Da stolto fervor. Ma voi non curanti Di plauso o di scherno, I poveri amando Amate l'Eterno, Ai bimbi servendo Servite a Gesų. Il mondo che ignora Del core i misteri, Non sa che pių dolce Di tutti i piaceri Č l'umil conflitto D'arcana virtų. La vergine sacra Al Dio degl'infanti Sublima sue pene Con palpiti santi; Č abbietta ai mortali, Ma l'anima ha in ciel. Con Dio nella mente Le cure pių gravi, Le cure pių vili Diventan söavi: Bassezza non tange Un'alma fedel. La vergine sacra Al Dio de' bambini Vagheggia in Maria Affetti divini, Le impronte cercando Di lei seguitar. Non volgono ai bimbi Tirannico ciglio Color, che mirando Maria col suo Figlio, Li veggon dal cielo Sui bimbi vegliar. Ah! sė, benedette Voi tutte, o bell'alme, Che ai miseri infanti Porgete le palme, Di padri e di madri Vestendo l'amor! Pensier non vi preme Di plauso o di scherno: I poveri amando Amate l'Eterno: Ai bimbi servendo Servite al Signor. LA GUIDA. Cuius anima est secundum animam tuam. (_Eccli_. 37.16). Ognor amai sublimi oggetti, e ognora Un pių di tutti:--ah! quei non era Iddio, Non era il sommo Ben ch'or m'innamora! Ma fra i cuori mortali era il pių pio Ch'io conoscessi, era alcun nobil cuore Che a virtute innalzasse il desir mio. Quai debbo grazie renderti, o Signore, Che fra mie cieche idolatrie pur mai In beltā vili non ponessi amore! Nell'obblïar tua propria luce errai, Ma negl'idoli miei sempre io bramava L'ineffabile incanto de' tuoi rai. Se creature troppo io venerava, Erano creature in te invaghite; Era qualch'angiol che ver te volava. Tai luminose tracce ivan seguite Sol dagli sguardi miei maravigliati, E nel mondo io tenea l'orme irretite; Ma perocch'io vedea gli angioli amati Anelare a' tuoi lumi e benedirti, Io pure i lumi tuoi sempre ho sperati. Intero il voler mio non seppi offrirti Per lungo tempo, e nondimen io ardeva D'annoverarmi fra i pių giusti spirti. I conosciuti iniqui io respingeva, E quando d'amicizia ad uom m'unėa, Alto core a mio senno in lui fulgeva. Or non pių, non pių voglio idolatrėa, Supremamente amar voglio te solo, Benchč ogni fido tuo caro a me sia. Ma perdona se pure infra lo stuolo Delle tue creature predilette Una pių ch'altre sulla terra io colo. Ella a fere calunnie non credette, E mi difese da' nemici miei! Ella a ben far tutti i suoi passi mette, Ella č mia guida, il nostro Sol tu sei! L'ANTICO MESSALE, Et benedictae reliquiae tuae! (_Deut_. 28.5). Oh ben a dritto pių di gemme e d'oro Ch'abbian sol di ricchezza immenso pregio, Ami, o Donna gentil, questo tesoro, Che vetustā rarissima fa egregio: Muto č al cor de' mortali ogni lavoro Che splenda sol come opulento fregio: Qui de' secoli v'č l'alta parola Che percuote ed in un turba e consola. Qui v'č un incanto ch'a noi stende innanzi Remotissimi giorni, i giorni alteri, Allorchč di barbarie infra gli avanzi Fiorian cittā, castella e monasteri, E non sol grandeggiavan ne' romanzi Le sante dame e i santi cavalieri, Ma di religïone e di portenti Tutte fervean le pių elevate menti. V'abbondavan dolori, e v'abbondava D'armati rei la vïolenza atroce; Ma mentr'era sė forte ogn'indol prava, Forte in cor degli eletti era la Croce! Di forza era un'etā che suscitava Tra l'iniquo ed il buon guerra feroce: Stupor ci fa tal quadro e ci atterrisce, Ma con somme virtų pur ci rapisce. Io non posso adorar l'etā lontane, Ma nč pertanto adorar so la mia, Chč troppo da vicin veggo profane Opre d'assai maligna e vil genėa, Sė che gemendo alle speranze vane Di chi grida, or regnar filosofia, Io non ami onorar que' vetust'anni Di cui non sento almen tutti gli affanni. Da qual lato pur penda la bilancia De' meriti maggiori e de' delitti, Gode la fantasėa quando si slancia Fra monumenti o per magėa di scritti In mezzo a quelle stirpi use alla lancia, Alle preghiere, ai mistici conflitti, Ai romeaggi, ai ruvidi cilėci, A tutta l'energėa de' sacrifici. E ciascun che non basso abbia l'ingegno Ammira que' giovanti cenobiti, Ch'oggi il diffamator con riso indegno Pinge ozïosi, inutili, insaniti: Senza i loro intelletti, avrebbe il regno D'ignoranza coverto i nostri liti: Ingratitudin dementō la terra, Quando in sua civiltā lor mosse guerra. L'anima langue e impicciolisce quando La ristringiam ne' quattro dė presenti: Nobil uopo ha di spargersi, abbracciando Avi e imperi e costumi e grandi eventi: Uopo ha di meditar, commiserando Coi nostri error quei delle scorse genti: Uopo ha d'uscir di sue natėe catene; Ogni tempo, ogni spazio le appartiene. Tale, o Donna pensante e generosa, Tal č l'arcano che ti molce il core, Gli occhi ponendo su vetusta cosa, E pių se esprime santitā ed amore. Dove non sorge l'alma tua pietosa Con questo antico libro del Signore, Che giā posō su chi sa quali altari A' giorni de' Crociati e de' Templari? A que' dė tu vi scorgi il Re Luigi Forse vivente ancora, o appena estinto, La sua bontā, il suo senno, i suoi prodėgi, I prodi cavalieri ond'era cinto, Il suo partir dai campi di Parigi Per la fatale impresa ove fu vinto; Fors'ei nel visitar conventi ed are Queste pagine vide alluminare. Il rimirar que' resti e quella polve Che a noi tramanda la lontana etate, Ci dice come Dio sempre dissolve Tutte le cose sulla terra nate; Ci sublima lo spirto, ci disvolve Dai vincoli di nostra vanitate: Per la scala de' secoli il pensiero Alza sull'orme dell'eterno Vero. Di quanti regi e prenci e capitani Festeggiando la nascita o la morte Questo libro servė nei riti arcani Che al debol uomo uniscono il Dio forte! Di quanti celebranti e sguardo e mani Lo toccaro, onde ignota oggi č la sorte! Quante labbra baciār questo Evangelo Di sacerdoti or glorïosi in cielo! Forse colui che tante veglie stette Su queste venerate pergamene, Fu Paladin che il proprio sangue dette Col pio Luigi sull'Egizie arene, E al santo Re l'ultimo dė assistette, E fu ludibrio all'ire saracene, Poi ritornato nella dolce Francia Appese entro d'un chiostro e spada e lancia; E venduti i suoi campi e dispensato Ogni suo avere a' poveri e alla Chiesa, Volle che il viver suo fosse immolato Ad oscura umiltā d'amore accesa; Eccol fattosi monaco e obblïato Dalla turba del mondo ai gaudi intesa! Eccolo salmeggiante assiso in coro, O in cella volto ad un gentil lavoro! Al lavoro di splendido Messale Che pazïentemente ei sta vergando; E poichč per ferite pių non vale Sua nobil destra a servir Dio col brando, Come giā il sangue, ora con gioia eguale Gli offre l'ingegno, questo libro ornando, E gode in abbellir d'oro e di fiori Quelle preci che tanto alzano i cuori. Egli il buon Salvator dipinger gode Per cui sė volentieri ha combattuto, E la Vergin Maria che lo fč' prode E sempre in guerra gli ha prestato aiuto; Del pennello ogni tocco č una sua lode, Un sospiro di grazie, un pio saluto: Circondano Angioletti il pittor santo Dando all'opera sua celeste incanto. Ma tu meglio di me, Donna, volgendo Quest'antico Messal senti secrete Inaudite armonie che appena intendo, Che mal accenna il verso o mal ripete: Parla tu stessa, dal tuo labbro io pendo; Delle soavi tue parole ho sete. Tutta adorna con esse č l'arpa mia, Tutta luce č di te mia poesia! FINE DEL PRIMO VOLUME. INDICE. La mia Gioventų..............pag. 9. A Dio........................... 14. Dio Amore....................... 18. Maria........................... 20. L'Uomo.......................... 22. La Redenzione................... 26. La Croce........................ 30. Gli Angeli...................... 35. Le Chiese....................... 44. Le Processioni.................. 77. I Parenti...................... 110. I Santuarii.................... 131. Le Passioni.................... 142. I Secoli....................... 149. Alessandro Volta............... 168. Ugo Foscolo.................... 177. Lodovico de Breme.............. 188. La Patria...................... 195. Saluzzo........................ 201. Il Poeta....................... 210. Sospiro........................ 213. La Mente....................... 215. Mestizia....................... 218. Teresa Confalonieri............ 221. L'Anima d'una figlia........... 224. L'Anima di Clementina.......... 230. Veritā e Sofismo............... 233. Il Colera in Piemonte.......... 239. Cessato il Colera.............. 243. Il Voto a Maria................ 248. La Madre degli afflitti........ 252. Dio e Maria.................... 256. Un Filosofo.................... 258. San Carlo...................... 266. Santa Fortunula................ 281. Santa Filomena................. 284. La Beneficenza................. 289. Una Donna...................... 293. Le Sale di ricovero............ 304. La Guida....................... 313. _Con permissione._ End of the Project Gutenberg EBook of Poesie inedite vol. I, by Silvio Pellico *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK POESIE INEDITE VOL. I *** ***** This file should be named 19429-8.txt or 19429-8.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/1/9/4/2/19429/ Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothčque nationale de France (BnF/Gallica) at http://gallica.bnf.fr) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need, is critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation web page at http://www.pglaf.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Its 501(c)(3) letter is posted at http://pglaf.org/fundraising. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email business@pglaf.org. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's web site and official page at http://pglaf.org For additional contact information: Dr. Gregory B. Newby Chief Executive and Director gbnewby@pglaf.org Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. 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Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For thirty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our Web site which has the main PG search facility: http://www.gutenberg.org This Web site includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks. *** END: FULL LICENSE ***