*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 43174 ***

LA

VITA ITALIANA

DURANTE LA

Rivoluzione francese e l'Impero


Conferenze tenute a Firenze nel 1896

DA

Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1897.


PROPRIETÀ LETTERARIA


Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.


[301]

IL REGNO D'ETRURIA


CONFERENZA

DI

E. Melchior de Vogüé.

[302]

Questa conferenza fu tenuta in francese; essa fu tradotta in italiano da Guido Biagi.

[303]

Signore e Signori,

Alla Società di pubbliche letture, chiamandomi a Firenze, piacque concedermi di parlarvi della vostra storia nella mia lingua nativa. Mi scuserò con essa e con voi; e quasi avrei intenzione di scusarmi con coteste nobili figure di Luca Giordano, avvezze ad ascoltare l'idioma che Paul Louis Courier, ellenista di gusto così squisito e sicuro, affermava “la più bella delle lingue viventi„. Ma un forestiero mal volentieri si arrischia a balbettare la purissima lingua italiana a un'eletta di ascoltatori toscani.

Eppure, a Firenze io non mi sento del tutto straniero; e ci torno per pagare un tributo a quei luoghi che furono i primi educatori del mio intelletto. Consentite che io mi lasci vincere dai personali ricordi: perchè dinanzi a ognuna di queste pietre eleganti, così sature di bellezza e di storica maestà, io ritrovo le impressioni lontane che la vita non potè cancellare.

[304] Uscito di collegio, m'avevano condannato a studiar legge in una delle nostre città di provincia: scappai, piantai lì le Pandette e le Istituzioni, e spiccato il primo volo di viaggiatore venni a posarmi in Firenze, dove passai sei mesi nello studio dei vostri monumenti, delle vostre arti e della storia vostra. Cotesta iniziazione fu per me una vera ebbrezza: scopersi il mondo della bellezza all'aurora della vita; e qui cominciai a scrivere, ma fortunatamente per i miei contemporanei e per me, ho perduto i miei scritti fiorentini: erano una tragedia in versi sul conte Ugolino che divorava i figliuoli per conservar loro il padre. Avendola perduta, ho qualche volta l'illusione di credere che fosse stupenda.

L'amore alla storia, alla storia viva, drammatica, scritta su tutte le vostre mura, s'impadronì di me a Firenze, e mi distolse da quella poesia da collegio. Già fin d'allora, leggendo Dino Compagni e i vostri altri antichi cronisti, mi trovai dinanzi ad uno dei problemi insolubili che s'impongono allo spirito umano: come si spiega l'eterna contradizione che esiste fra le cupezze, le follie, le crudeltà di cui parlano i libri, e le cose sorridenti, meditative, pacifiche che qui parlano agli occhi? Ecco un luogo d'elezione, dove la natura e gli uomini hanno cooperato per creare [305] di nuovo quell'armonico capolavoro che dopo Atene non s'era più visto. Fra le linee di questi orizzonti felici, che così bene si accordano, sembra che l'uomo si sia strappato di dentro la ragione e la grazia. Firenze si mostra nel cielo dell'intelligenza e dell'arte, sotto la sua luce dorata, come la vediamo in questa stagione dell'anno, fra la nebbia rosea e bianca dei mandorli e dei peschi che fanno una cintura di fiori alle sue cupole, a' suoi campanili; è il giardino in cui tutti i fiori del genio umano sbocciarono, con un'esatta disciplina d'eleganza prestabilita, di saviezza tranquilla, e come in virtù d'una fraterna premeditazione della terra e dell'uomo per avverare finalmente il gran sogno di tutti noi, cioè una vita perfettamente bella nel riposo d'una perfetta felicità.

Ma non è che un miraggio! Consultate la storia: qui, come ad Atene, essa ci mostra nel giardino incantato e perpetuamente devastato, una sanguinosa arena in cui gli uomini si lacerano fra loro, un campo di battaglia in cui le nazioni si accapigliarono furiose nel corso dei secoli, con le loro concupiscenze, accese dalle tentazioni di questa perfetta bellezza.

Oggi, come quando leggevo Dino Compagni, ho spogliato alcune pagine della storia fiorentina, ma di tempi a noi più vicini; e ci ho ritrovato [306] quel doloroso problema, ci ho ritrovato l'uomo che si accanisce a recare il turbamento e il disordine ne' luoghi in cui sembrava splendere una divina potenza pacificatrice. Vi parlerò liberissimamente di coteste cose passate, di quel confuso marame d'istinti, d'interessi e di idee che, al principio del nostro secolo, l'onda rivoluzionaria francese rovesciò sulle terre d'Italia. E mi ricorderò che qui, con tante altre lezioni, mi fu data la norma per giudicare della storia. È nella Galleria degli Ufizi una tavola d'un ignoto quattrocentista: una Madonna col Bambino, pittura di pregio mediocre, opera incerta di alcun povero scolaro di Giotto. Pure, ho sempre sul mio scrittoio la fotografia di quel quadro. Sotto cotesta Vergine, che fu certamente affissa in qualche pretorio d'un palazzo di giustizia, una mano indica allo spettatore ed al giudice l'iscrizione in grandi lettere gotiche: “Odi l'altra parte.

Odi l'altra parte! la Madonna degli Ufizi ci porge così la prima regola dei nostri giudizi nella vita, nella storia, in quella scienza embrionale ed oscura, che noi chiamiamo, mentre è ancora in fieri, politica, e che un giorno sarà storia pur essa.

La vostra Società di letture ebbe la felice ispirazione di assegnare al corso di ciascun anno un periodo di storia. Vi hanno già parlato in addietro [307] del Medio Evo e del Rinascimento; vi narreranno in questa serie la vita italiana durante le tempeste della Rivoluzione e dell'Impero. In questo ciclo ho scelto un episodio minuscolo, la breve esistenza del Regno d'Etruria. Ma prima di raccontarvelo, permettetemi di fare alcune riflessioni sulla legge misteriosa che trascina i nostri due paesi entro una medesima orbita.

Anche se differiscono i tempi, il fondo dell'uomo rimane invariabilmente il medesimo. Di questo permanenti rassomiglianze è facile persuadersi paragonando i sanguinosi conflitti nei quali le nostre razze si accapigliarono, così nel Rinascimento come durante la Rivoluzione. Più ci medito e più scopro un'identità fondamentale fra il movimento che rovesciò in Italia le milizie di Carlo VIII, di Luigi XI, e di Francesco I e quello che vi ricondusse le soldatesche del Championnet, dello Schérer, del Bonaparte. La stessa operazione di segreta alchimia si riproduce nello stesso crogiuolo. È un parto laborioso, che si compie, secondo l'eterna e dura legge della riproduzione, in mezzo al sangue e agli spasimi.

È nota a voi tutti una teorica che, se non il cuore, appaga l'intelligenza: quella dello Schopenhauer sull'amore. Secondo lo spietato filosofo, due esseri che si amano cedono all'inganno della natura; inconscienti e ingannati, non fanno che [308] obbedire alla volontà d'un terzo essere, il quale si serve di loro per conseguire i suoi fini, e arrivare alla vita. La spiegazione dello Schopenhauer, se è vera, potrebbe adattarsi egualmente a ciò che è il rovescio dell'amore, all'odio: vale per la guerra delle razze come per la guerra dei sessi. Quando due nazioni si scannano, con l'illusione di soddisfare a cupidigie individuali e immediate, esse preparano inconsciamente una nuova forma di civiltà che vuol nascere dal loro conflitto. Questa legge si manifesta in tutte le epoche della storia; e segnatamente nei violenti contatti fra i popoli al di là e al di qua delle Alpi. Mentre gli uomini bagnan di sangue e si contendono le feconde valli fra le Alpi e l'Adriatico, una divinità serena ed ironica contempla le loro lotte, dalla vetta di quelle Alpi dove le nuvole la nascondono agli sguardi dei mortali: impassibile e indifferente alla diversità di razza, di patria e d'interessi, essa rappresenta il genio della storia. Non dice come il Bonaparte a' suoi soldati: “In coteste fertili pianure troverete il pane e le scarpe che vi mancano!„ Ma grida: “Andate, operate, poveri esecutori de' miei disegni: ho bisogno della vostra ignoranza e delle vostre atrocità per conseguire i miei fini; andate e in coteste pianure risvegliate lo spirito della vita, la scintilla che vi ripose l'antica Roma: ne [309] ho bisogno per illuminare l'immagine de' tempi avvenire, che nascerà e prenderà forma e figura sulle rovine da voi lasciate.„ E alla sua voce il miracolo si compie. I soldatacci brutali ed entusiasti, cupidi ed ubriachi, che si sparsero per l'Italia dietro Gastone di Foix e il La Trémouille, ricondussero in Francia, nel riflusso d'una controinvasione, Leonardo, Benvenuto, il Primaticcio, parecchi letterati, e dotti ed ellenisti: il Rinascimento sbocciò, lo spirito de' tempi moderni aleggiò sul carnaio ove caddero gli estremi lottatori dell'età feudale. Parimente, quando i volontari della Rivoluzione piombarono in Italia, spinti dagli stessi principii, attirati dallo stesso miraggio, essi non s'accorsero che preparavano la formazione d'una novella Europa, e che, vagheggiando il loro sogno, aiutavano l'effettuazione dell'antico sogno italiano, cioè la resurrezione d'una patria comune.

Il mio amico Alberto Sorel ha messo in evidenza l'idea madre, ormai accettata da tutti gli storici, che deve regolare i nostri giudizi quanto all'opera della Rivoluzione e dell'Impero oltre le frontiere francesi. Gli uomini del 1789 e i loro violenti continuatori avevano un ideale nobile, generoso, ma chimerico quanto mai; i primi volevano largire al mondo e gli altri imporgli per forza cotesto ideale di libertà, d'uguaglianza, [310] d'emancipazione umana nella fusione di tutti i popoli fratelli. Ma la sementa che i soldati della Rivoluzione e dell'Impero portarono nei loro zaini cambiò natura — per dir così — nelle terre straniere dove fu sparsa: l'idea di libertà astratta vi germogliò e fruttificò sotto altra forma, con l'idea dell'indipendenza nazionale, e con il risveglio dello spirito particolare a ciascun gruppo etnico; e così la Rivoluzione che credeva di unificare l'Europa preparò, in fatto, la ricostituzione delle nazionalità che dalla voce di quella furon richiamate alla coscienza dell'esser loro. Gli ultimi avanzi dell'Epopea, testimoni di cotesto infrenabile movimento delle nazionalità, non poterono riaversi dallo stupore: rimasero come la gallina che si avvede di aver covato le uova d'un'anatra. Quindi malintesi infiniti: e quel che il Sorel comprende oggi così chiaramente, non fu mai capito da uno storico come il Thiers.

Nell'ora dei primi contatti tra la Francia rivoluzionaria e l'Italia, quest'Italia degli antichi governi aveva sentito aleggiare uno spirito precursore: le sorde speranze, affiochite da secoli, ritrovavano la voce. Il Muratori insegnava di nuovo agl'Italiani le loro origini: Pietro Verri e l'Alfieri con il fuoco della poesia tenevano accesa la fucina dove si preparavano le sorti della patria [311] italiana; e quando il Vico con i suoi occhi veggenti perlustrava la storia, ne' grandi orizzonti dove chiamava a raccolta l'umanità, altro non vedeva che l'Italia rigenerata. Nel 1789 il conte Napione parlava già come un precursore del Cavour: e anche fuori della penisola, si presentiva cotesta futura possibilità. La grande Caterina scriveva col suo spirito perspicace: “L'Italia attende e spera.„ E cotesta intuizione politica coincideva col primo risveglio del Romanticismo, uscito dall'anima di Gian Giacomo Rousseau: e la terra della bellezza classica doveva per prima profittare di questo nuovo modo di considerare il mondo. Già lo Chénier esclamava in una delle sue elegie:

Belle encore, l'Italie attire l'univers.

Mossi dal fascino della fata misteriosa, venivano a lei i viaggiatori, pieni d'una sacra ebbrezza che i loro precursori non conoscevano ancora. Paragonate i sentimenti dello Chateaubriand, di madama di Staël, del Lamartine, simili al Goethe che faceva datar dalla sua venuta in Italia la sua seconda nascita, paragonateli alla curiosità puramente classica del presidente De Brosses e degli altri viaggiatori del XVII e del XVIII secolo. Un mondo s'è rivelato: non soltanto ai poeti, ai maestri delle intelligenze, ma ai semplici, ai soldati trascinati dalle guerre. [312] Lo Championnet si reca in pellegrinaggio alla tomba di Virgilio. Udite questo passo del d'Hauteroche, giovane ufficiale della Rivoluzione: “Avevo diciott'anni, le spalline di sottotenente nuove fiammanti, un gran pennacchio bianco, il più grande che avessi potuto trovare.... Partii per Lione. Mia madre pianse, la mia sorellina pianse; io, io per me ridevo e piangevo insieme, ero tanto contento di partire per l'Italia!„ Un altro, il chirurgo aiutante-maggiore Lamare, diciottenne anch'esso, previene la chiamata e parte per Napoli “con un bisturì nell'astuccio, un microscopio nel sacco, e, con in tasca l'Eneide.„

Questi pellegrini armati ebber da prima liete accoglienze nel paese che tanto li attraeva. Tranne nel Piemonte, fedele e devoto alla vecchia Casa di Savoja, c'era poca affezione per le dinastie nomadi che i Francesi spodestavano. I patriotti italiani videro di buon occhio questo aiuto rivoluzionario, che li liberava dai loro padroni stranieri e che per essi trasformavasi in un'aurora dell'indipendenza e della libertà italiana. Il Monti, Ugo Foscolo, composero odi alla gloria di “Bonaparte liberatore„. Ma il disinganno fu rapido. I filosofici liberatori, divenuti alla lor volta padroni stranieri nei paesi che avean liberato, si fecero ben presto odiare dai sudditi. Le tentazioni e le necessità della conquista alterarono [313] l'idea originale della Rivoluzione: in Bonaparte conquistatore, e già prima di lui nello Schérer e nel Championnet, l'Italia disingannata malediceva di nuovo i successori, gl'imitatori di Carlo VIII e di Luigi XI.

Le memorie del generale Thiébault, pubblicate recentemente, mostrano per qual naturale cammino la guerra difensiva diventò guerra di conquista e per quale logica metamorfosi l'entusiasmo dei liberatori si cambiò in spirito d'invasione e di rapina e quello dei liberati in odio contro i nuovi oppressori. Si rabbrividisce a leggere le scene di carneficina e di devastazione che l'inconsciente Thiébault descrive allegramente, quando racconta l'occupazione di Napoli e delle Calabrie. Ma più ancora di questi sanguinosi eccessi, la rapacità dei vincitori esasperò gl'Italiani. Li spogliavano dei tesori d'arte, nei quali la coscienza nazionale vedeva con ragione i veri emblemi della patria smembrata, le più salde garanzie del diritto che essa aveva a pretendere un destino pari all'altezza del suo genio. Paul-Louis Courier testimone dell'esodo di questi dèi lari, già lo rimpiangeva nelle sue eloquenti lamentazioni: “Tutto quel che apparteneva ai Certosini, a Villa Albani, ai Farnese, agli Onesti, al Museo Clementino, al Campidoglio, è portato via, saccheggiato, perduto o venduto. Gl'Inglesi ne hanno [314] avuto una gran parte, e alcuni commissari francesi, sospettati di aver fatto cotesti traffici, son qui arrestati; ma la cosa non avrà seguito. Una squadra di soldati, entrati nella Biblioteca Vaticana, ha fra le altre rarità distrutto il famoso Terenzio del Bembo, per prender le poche dorature onde il manoscritto era ornato. La Venere di Villa Borghese è stata ferita in una mano da qualche discendente di Diomede, e l'Ermafrodito, immane nefas!, ha un piede rotto.„[1]

In Toscana, come a Roma e a Napoli, il triennio, gli anni di guerra civile e straniera corsi tra il 1798 e il 1801, fu un'êra dolorosa di disordini, di esazioni, di miseria per il popolo. Francesi, Napoletani, Austro-Russi e insorti paesani opprimevano ugualmente i poveri abitanti estenuati. Mai fu meglio appropriato il grido del poeta:

Ahi, serva Italia di dolore ostello,

Nave senza nocchiero in gran tempesta!

Le vittorie del Primo Console, nell'anno 1800, restituirono l'ordine se non l'indipendenza e la libertà. L'anno dipoi la Toscana riaveva un regolare assetto sotto il nome di Regno d'Etruria. Questa la prima, in ordine di tempo, delle sovranità effimere che Napoleone doveva far sorgere [315] su tutta la superficie d'Europa, per mettervi e rimettervi come altrettante sentinelle i principi della sua famiglia. Sembra che il futuro distributore di tante corone abbia voluto farsi la mano, per questo grandioso palléggio, a Firenze. Per tale rispetto, l'esperienza etrusca merita d'esser dallo storico presa in considerazione; ed oggi ci è ben nota, mercè dei lavori eruditi di Pierfilippo Covoni, e del libro compilato sui documenti dei nostri archivi diplomatici da Paul Marmottan.

Il granduca Ferdinando III fin dal marzo 1799 aveva abbandonato Firenze, per ordine del generale Gauthier comandante il corpo francese d'occupazione. Ma il principe lorenese non fu definitivamente spodestato che dopo la conclusione del trattato di Lunéville, per il quale i diritti di lui furono trasmessi ai Borboni di Parma. Il trattato, quanto all'assetto dell'Italia, ebbe compimento con una convenzione conclusa ad Aranjuez, il 21 marzo 1801, fra Luciano Bonaparte e il principe della Pace. Ai termini del concordato, l'antico granducato di Toscana, eretto in Regno d'Etruria, passava al giovane infante Luigi di Parma, cugino e genero del Re di Spagna. Una stipulazione espressa determinava che il nuovo re e la sua sposa traverserebbero Parigi prima d'entrare nei loro Stati. L'immaginazione [316] del primo console erasi infiammata all'idea di mostrare alla Francia repubblicana il primo re creato da lui, e di accompagnare sulla Piazza della Rivoluzione, con un corteggio di regicidi e con un cerimoniale abolito, un nipote di Luigi XIV, un discendente di Luigi XVI.

Don Luigi aveva ventott'anni, l'infante Maria Luisa venti. Erano ombre leggiere, come tant'altre che svolazzarono al principio del secolo, ne' rami meridionali della Casa di Borbone: deboli rampolli del gran tronco, estenuati da troppo sole, da troppo potere, da troppe passioni. Nella galleria degli Ufizi è il ritratto di Don Luigi: un esile fantasma, elegante, col suo abito verde e co' suoi calzoni scarlatti, con un viso pallido e il naso caratteristico della famiglia; i capelli d'un biondo pallido son intrecciati in una catenella racchiusa entro una borsa di seta nera. La testa di lui si piega sotto il peso del Toson d'oro: quella povera testa non doveva a lungo resistere sotto il pondo d'una corona cascatale sopra.

Maria Luisa non era bella: piccola, pienotta, colorita, trasparivale una cert'aria di maestà nella fisonomia e tutto il fuoco della Spagna negli occhi neri. Avea uno spirito perfettamente incolto, ma abbastanza sciolto, che pure mostravasi sommesso ai preti, i quali dirigevano la sua devozione puerile.

[317] Don Luigi avea dato segno di una certa curiosità e di qualche attitudine per le scienze naturali. Con lo Chaptal teneva corrispondenza intorno a questioni di chimica industriale. Lo scienziato nel 1792 avea ricevuto dal suo allievo una lettera, che egli ci ha conservato nei suoi Souvenirs e che non è di un principe imbecille. “La vostra Rivoluzione, mio caro amico, ci ha insegnato che il mestiere di re non vale più nulla: figuratevi quello d'erede presuntivo. Dopo averci ben riflettuto, mi son deciso a conquistare la mia indipendenza, e credo potervi riuscire mettendo su delle fabbriche in Ispagna dove mancano. Ma non posso riuscirvi che mediante il vostro aiuto. Venite a trovarmi e lavoreremo insieme. Mio suocero ci darà aiuti di denaro e di protezione. Quando avremo fatto fortuna, andremo a vivere in qualche posto dove possiamo trovar riposo, se pure esiste ancora su questa terra.„

Il Bonaparte stava per dargli la fortuna e un breve riposo. Gl'Infanti lasciarono la Spagna l'11 di maggio 1801. Viaggiarono sotto i nomi di conte e di contessa di Livorno. Questa la sola precauzione che prendesse il Primo console per attenuare lo scandalo d'un ricevimento apertamente reale. Suo fratello Luigi aspettava le vetture alla Bidassoa, alla testa del suo reggimento di dragoni: il generale Bessières andò incontro [318] ai sovrani a Mont de Marsan e li scortò fino a Parigi. Furon ospitati nel palazzo del signor d'Azara, ambasciatore di Spagna: Cambacérès e Lebrun andarono a far loro la prima visita. Subito dopo, i sovrani d'Etruria presero posto in una vettura tirata da muli, secondo la moda spagnuola, e si recarono alla Malmaison, dal Primo Console, che circondato da' suoi generali li attendeva sul peristilio. Don Luigi, timido e imbarazzato, si fermò come interdetto dinanzi al vincitore di Marengo: non potè proferir parola e si gettò con effusione tra le braccia del suo creatore. Bonaparte lo rialzò con bontà, rivolse qualche complimento alla regina, che, con maggior presenza di spirito del marito, rispose con parole cortesi le quali tolsero Don Luigi dall'imbarazzo. Giuseppina s'impadronì di Maria Luisa e la colmò di regali, di acconciature ch'essa avea scelte dalle sue modiste; e grazie all'inesauribile argomento della moda fu presto rotto il ghiaccio fra le due donne, che durante il soggiorno della coppia reale a Parigi furon viste intime e loquaci come vecchie amiche.

Ma fra i due uomini non avvenne il medesimo. Don Luigi non poteva vincere la soggezione che provava dinanzi al Bonaparte. Quando gli affari richiamavano il Primo Console nel suo gabinetto, il giovane re se la svignava scappando nel salone [319] degli aiutanti di campo, dove ritrovava la sua disinvoltura e il suo vero carattere. Superbo di possedere una bella voce baritonale, cantava il Tantum ergo o il Magnificat a quegli antichi volontari della Repubblica che cantavan con lui. Poi li faceva mettere in fila per saltare sulle loro spalle e far le capriole sul tappeto. Questa puerilità serviva a puntino ai disegni del Bonaparte. Dopo la partenza degl'infanti, dinanzi a' generali ne prendeva occasione per dire: “Avete visto che cosa sono cotesti principi della Casa di Borbone, cotesti eredi di Carlo V e di Luigi XIV? È possibile che gente fatta così risponda alle necessità del nostro secolo?„

Pure il Console usò a' suoi ospiti ogni maggior riguardo, e moltiplicò i divertimenti: partite di piacere, balli, ricevimenti magnifici alle Tuileries, presso i ministri, parate della guardia consolare al Carrousel, spettacoli all'Opera, al Teatro francese. Alla zecca si coniò in presenza dei sovrani la medaglia di prammatica Rex Etruriae. Essi assisterono alla seduta dell'Istituto e ascoltarono dotte comunicazioni dello Chaptal, del Cuvier, del Laplace. Presero con loro doni preziosi di Sèvres e dei Gobelins. Maria Luisa, consigliata da Giuseppina, usciva fuori in gran gala e per risparmiarsi la fatica di cambiare abbigliamento, la Spagnola si vestiva fin dalle sette di [320] mattina con lo strascico di corte e portava il diadema senza più levarlo fino a quando andava a riposare.

Il mobilissimo popolo parigino accoglieva con grande entusiasmo il primo Console e il re, su quella stessa piazza dove, ott'anni prima, aveva ghigliottinato il loro buon zio Luigi XVI, come doveva chiamarlo più tardi Napoleone. I manifesti attaccati alle cantonate avevano preparato la pubblica opinione: si diceva che quella memorabile visita era al mondo pegno di pace, e dell'universale concordia che i negoziatori d'Amiens eran sul punto di restaurare. E poi, in cotesta folla, ogni granatiere che aveva traversato scalzo l'Italia poteva dire ai vicini: Cotesto re e cotesta regina li ho fatti io! — L'entusiasmo fu tale che sorpassò i desiderî del Bonaparte, onde il Gabinetto del Primo Console mandò ai prefetti istruzioni segrete per temperare lo zelo delle popolazioni lungo il tragitto che avrebbero percorso i Reali. Il 30 giugno, gl'infanti presero commiato dal Bonaparte e da Giuseppina, e affermarono la loro eterna riconoscenza in un ultimo abbraccio a così grandi amici.

Presero la via dell'Italia scortati da uno squadrone di ussari comandati dal Grouchy. Il generale Clarke, che a Firenze doveva essere il loro tutore, li accompagnava. Dovunque gli stessi segni [321] di rispetto, le stesse ovazioni. Il Murat li attendeva in Toscana, poichè l'eroe piumato riempiva allora con la sua petulanza e magnificenza teatrale queste sale del palazzo Riccardi. Egli diresse l'insediamento di re Luigi a Palazzo Vecchio, e, lasciatolo lì sotto la sorveglianza del Clarke, ripartì per Milano.

Ci voleva un altro ingegno, assai maggiore a quello di questo principe debole ed infermiccio, per rafforzare un trono malfermo in quella Toscana rovinata, lacerata dalle fazioni, occupata dai soldati stranieri, indifferente al sovrano che il caso le imponeva. Le difficoltà gravissime del nuovo regno ci sono rivelate dai carteggi del Clarke e del Tassoni, l'accorto inviato della Repubblica Cisalpina, dalle lettere lamentevoli del re Luigi al Primo Console. Fin dal primo giorno, l'infante si trova alle prese con le difficoltà finanziarie che sempre aumenteranno. Come ricordo del fausto avvenimento, è costretto ad imporre ai sudditi una contribuzione di 300.000 franchi per far fronte alle spese del corpo francese d'occupazione, giacchè 6000 uomini eran di guarnigione a Livorno, donde sorvegliavano gl'Inglesi padroni dell'isola d'Elba. Invano Don Luigi supplica il suo “carissimo amico„, il Primo Console, di scemare le sue pretese; non può nemmeno ottenere dal Bonaparte la restituzione [322] della Venere dei Medici, che allora appunto peregrinava da Livorno a Napoli e da Napoli a Parigi; non potè neanche ottenere quel “più regolare arrotondamento de' suoi Stati„, che il giovane sovrano molto ingenuamente chiedeva in cambio della bella divinità.

Senza tener conto della pubblica miseria, la Corte spagnola si lasciò andare al fasto e allo sperpero. Non si pensava che al piacere. Il re avea preso come primo ministro il vecchio Mozzi “astronomo calato dall'osservatorio al gabinetto„, dice un diplomatico forestiero. Cotesto cortigiano de' vecchi tempi sembra uno dei personaggi dipinti dallo Stendhal nella Chartreuse de Parme. Pure il Mozzi era un galantuomo che non mancava nè d'esperienza nè di finezza; ma fu ben presto sostituito da un intrigante della peggiore specie, il Salvatico che alla Corte degl'infanti diventò ciò che era presso i loro parenti di Madrid il famoso principe della Pace. Cotesto Godoi in sessantaquattresimo aveva tutti i vizi del suo modello. Per le sue mani passavano le grazie, e il denaro del Tesoro andava a' suoi compagni di dissolutezza. Da un solo particolare si può giudicare del fasto che si permetteva cotesta Corte indebitata: intorno alla coppia reale erano centoquindici gentiluomini di Camera e settantacinque dame d'onore. Il Salvatico accarezzava [323] le manie puerili di Don Luigi e la passione per il piacere, che nella regina Maria Luisa andava unita ad un superstizioso bigottismo. La mattina diceva il rosario con i Sovrani; la sera metteva su a Poggio a Cajano alcune recite nelle quali l'infante faceva ammirare la sua bella voce. Che autorità poteva conservare un principe che cantava nel Barbiere la parte di Basilio, mentre il favorito gli rispondeva in quella di Figaro? E cotesto principe era insidiato dal male implacabile che dà un così tragico aspetto ai nipoti di Luigi XIV, consumati sotto il cielo di Spagna dagli eccessi del senso.

Dopo pochi mesi di regno, il disgraziato Don Luigi non era più che un'ombra demente. I rapporti del Clarke e del Tassoni segnalano giorno per giorno il declinare della sua salute, gli accessi furiosi d'epilessia, la cui frequenza è attribuita “alle troppo frequenti prove d'amore che il re dava alla regina„. Ben presto i ministri cominciarono a parlare della sua pazzia, senza riguardi. Questo Amleto frenetico scappava dalla tavola a cui il Murat lo invitava, si chiudeva a forza in camera, e ne usciva poi in veste da camera, con la sciabola in pugno, per esterminare i traditori che la sua immaginazione vedeva da per tutto e non senza ragione! Mancò poco che così non ammazzasse il vecchio Mozzi e il Salvatico. [324] Dovettero legarlo nel letto con lacci di seta. Il 27 maggio 1803 un'ultima crisi epilettica lo spense a trent'anni, dopo un biennio di regno. Come parecchi de' suoi congiunti, aridi rampolli d'una razza esaurita, don Luigi aveva appena appena attraversato la scena del mondo. Nel risveglio di giovani forze che fremevano all'aurora del nostro secolo, coteste fisonomie smarrite e invecchiate sembrano gli ultimi fantasmi d'un mondo che scompare.

Lo seppellirono — ma per poco, come vedremo — nella Cappella dei Medici. Per una di quelle ironie a cui la storia è avvezza, cotest'anima d'augello spaurito, vagabonda così nella morte come nella vita, andò per un momento a posarsi fra le grandi figure di marmo e di bronzo, sotto il Pensieroso, alla grave ombra della Notte. La miseria dell'erario, scrive il Clarke, era tale che “per il funerale del re non c'era di che pagare i ceri; e dalla cereria non vollero darli a credenza: non c'erano che dodici ceri in un angolo del palco sul quale fu esposto, scoperto, il corpo del principe sventurato„. — E il ministro soggiunge: “Gli animi son vicini alla disperazione: le imposte sono così gravi che i sudditi toscani pagano più di quelli della Gran Bretagna: la regina reggente è abbattuta e scoraggita.„

[325] Maria Luisa diventava difatti reggente d'Etruria, in nome del figlio Carlo Luigi ancora in culla. Il vero reggente era il Salvatico. Rinchiusa nelle sue pratiche devote, viaggiando di monastero in monastero con un codazzo di monache, la Spagnola non faceva nulla per affezionarsi i Toscani. Alla morte dell'Alfieri offese i loro sentimenti: e gli amici del poeta ottennero a gran fatica il servizio religioso che il clero gli voleva rifiutare. Nel dicembre 1804, l'ambasciatore di Spagna Labrador fu dai parenti di Maria Luisa incaricato di ottenere a qualunque patto l'allontanamento dell'infausto Salvatico. Il Labrador si recò dalla regina e per tre ore le fu intorno: essa finì per cedere con mala grazia. Cotesta rivoluzione di palazzo fece gran rumore in Firenze. Il favorito non lasciava mai la sovrana, ed entrava da lei a qualunque ora: doveva accompagnarla il giorno appresso a una partita di caccia; ma grande fu lo stupore, e generale il sollievo, quando seppesi ch'era stato destituito durante la notte e condotto con una vettura di posta in una delle residenze suburbane. E la Reggente dovè alla meglio ricomporsi per comparire nel circolo di corte.

D'allora in poi e durante i tre anni che seguirono, la storia della reggenza d'Etruria non ci presenta che l'agonia d'un potere che si dissolveva [326] prima ancora di aver governato. Gl'imbarazzi finanziari ogni giorno crescevano, nonostante gli sforzi e l'abilità del banchiere Eynard: nel 1805 il generale Verdier metteva il sequestro sulle rendite della città e del porto di Livorno per pagare le spese del corpo di occupazione. Come i soldati stranieri, così gl'impiegati toscani si pagavano da loro, e l'amministrazione era dall'alto in basso incancrenita dalla più sfacciata corruzione. Da principio la reggente aveva cercato appoggio e soccorso presso il suo protettore, il Bonaparte; ma il Bonaparte era diventato Napoleone; e il nuovo imperatore aveva altre cure, altri pensieri per altri Stati più importanti di quello dove il Primo Console aveva fatto il primo saggio d'una monarchia vassalla. Per un momento pensò di maritare Maria Luisa al fratello Luciano, che rifiutò. Di poi lasciò libero il campo agl'intrighi della sorella, l'Elisa Baciocchi; giacchè la principessa di Lucca e di Piombino anelava di succedere alla sua debole vicina; e insidiare occultamente Maria Luisa, rovinarla agli occhi dell'imperatore, prendere il suo posto a Firenze, era il disegno politico dell'ambiziosa Elisa.

La guerra di Spagna sonò a morto per il regno d'Etruria; e Maria Luisa sballottata tra Ferdinando suo padre e Napoleone suo protettore, [327] oscillante fra il partito francese e quello spagnuolo, era destinata fatalmente ad esser travolta nella disgrazia de' suoi parenti.

Elisa trovò un alleato nel successore del Clarke, il residente francese D'Aubusson de la Feuillade, gentiluomo di vecchia razza, d'ingegno vivo e aperto a tutte le idee moderne, che si dava in Firenze un gran da fare. Abitava il palazzo Feroni, in Via dei Serragli, si teneva in gran lusso e dava sontuosissime feste. Partiti gli ospiti, il ministro prendeva in mano la penna e dirigeva al Talleyrand delle relazioni vivaci e argutissime, nelle quali diceva corna della società che avea ricevuto. “Il presente governo (dicembre 1806), è composto di quattro ministri, tutti vecchissimi, debolissimi, indolentissimi. Il vecchio Mozzi è rimbecillito dall'età. La regina gli mandò l'altro giorno l'ordine di dare 300 zecchini a un corriere che andava in Spagna: ma egli non ha mai saputo perchè quel corriere ci andasse. La regina non ha fiducia in lui, perchè non ha più che qualche lucido intervallo. Il Cercignani, vecchio come Erode, debolissimo, decrepitissimo, sciocchissimo, nemicissimo dei Francesi, chiedeva non è molto a coloro che sollecitavano la sua protezione, se educassero i figli nel santo timor di Dio e nell'odio contro i Francesi. Il Martini, ministro da un anno, non è fanatico; ma questa è la sola [328] sua buona qualità. È lungo, lento, peso e vecchissimo. Pure ha grandissime pretensioni: ha per intercalare ch'egli ha per governare più talento dello stesso imperatore.... Il quarto ministro Mugnai è ancora vecchissimo e sordissimo.... Fo quanto posso per scuotere coteste vecchie zucche e far loro aprire gli occhi semichiusi dagli anni; ma non ci riesco.„ Nel giugno del 1807 il D'Aubusson tornava all'assalto e ritoccava così il quadro poco lieto: “ministri che non stanno in piedi per le ingiurie del tempo e per la mancanza di fiducia della loro sovrana, o imbecilli e inveleniti contro di noi, tutti con la paura di perder l'impiego; subalterni che valgon quanto loro e anch'essi impauriti, deboli come i superiori in ogni cosa.

Una regina che per giudizio e istruzione ha sei anni, che non si rammenta da un giorno all'altro delle cose, ostinata e dispotica come si suole essere a cotesta età, raggirata da un confessore fanatico e da sottoposti intriganti i quali vogliono arricchire e dominare e non sanno nulla prevedere: ecco il vero quadro della Corte.„

Pretendevano le male lingue che il D'Aubusson fosse molto addentro nel favore della Sovrana, da lui dipinta con colori così poco lusinghieri. È difficile crederlo, perchè lo vediamo [329] prendere a cuore gl'interessi d'Elisa Baciocchi e con la principessa di Lucca cospirare alla rovina della Spagnola. La più gran censura che si faceva al governo etrusco, continuamente rappresentata al Talleyrand e all'Imperatore, era la complicità sua con gl'Inglesi che stavano in crociera dinanzi a Livorno, le agevolezze concedute alle loro merci per rompere il blocco continentale. L'Elisa e il D'Aubusson sapevano che l'Imperatore su questo punto era specialmente irritabile. Sembra di fatti che le risoluzioni di lui fossero precipitate per il pensiero di difendere più energicamente il suo sistema di blocco sulle coste d'Etruria. Tutti aspettavano e reclamavano in Toscana il cambiamento d'un ordine di cose intollerabile, giacchè non c'era più nulla da sperare da una regina e da un governo screditati, odiati da tutte le classi della popolazione, incapaci di porre riparo all'anarchia amministrativa e alla rovina economica del paese. Napoleone non aveva che da fare un cenno per distruggere a Firenze il fragile edifizio da lui innalzatovi: e cotesto cenno fece nell'ottobre del 1807, ma non fu come Elisa desiderava. Frustrando le speranze della sorella, l'Imperatore decise l'annessione pura e semplice della Toscana al Regno francese in Italia. La principessa di Lucca doveva [330] ancora aspettare due anni quel granducato da essa tanto bramato, che le fu concesso soltanto nel 1809.

Stipulava il trattato di Fontainebleau che la reggente e il piccolo re d'Etruria, spodestati dei loro dominii, ricevessero compensi nel Portogallo: Maria Luisa non li ebbe mai. Napoleone, di fronte a lei, procedè con la sua solita brutalità sbrigativa. Disse al generale Reille: “Reille, avete consegnato nel 1801 al re d'Etruria le chiavi di Firenze: andate a farvele restituire.„ Il generale entrò nella città, nel dicembre 1807, con un corpo di 10.000 uomini. Il D'Aubusson aveva notificato alla sventurata Regina il colpo che le era preparato: il 10 dicembre, essa firmò piangendo il proclama che scioglieva i Toscani dai loro giuramenti di fedeltà. E da quel paese, dove non aveva potuto radicarsi, la videro fuggire come un'ombra leggiera, circondata da altre ombre, nella generale indifferenza. Tragica dipartita, quadro parlante di tutto il sistema napoleonico, di quei perpetui sgomberi di sovrani, insediati, cambiati, richiamati come sentinelle di fazione: attendati per alcuni giorni in quelle capitali donde il capriccio di Lui, morti o vivi, li richiamava. Maria Luisa fece esumare il corpo dello sposo, e una carrozza che precedeva la sua portò il feretro di Don Luigi, custodito [331] da quattro cappellani: un'altra carrozza portava la culla di suo figlio. All'inizio del viaggio, il convoglio di scorta era ragguardevole: ma a Cafaggiolo incontrò la principessa Elisa, che aspettava i cavalli di posta requisiti dalla sua rivale: le due donne non si videro. La scorta diminuì rapidamente, intorno alla regina errante che partiva senza un soldo: arrivato alla frontiera di Francia, il corteggio erasi ridotto al morto, al bambino e a quattro donne spagnole rimaste fedeli alla loro padrona. A Milano, essa aveva avuto un abboccamento con l'Imperatore: ma abituato alle disgrazie cagionate dalla sua politica, quella di Maria Luisa non lo commosse più di tante altre.

L'Infante raggiunse i suoi parenti e seppellì lo sposo ad Aranjuez, dove “il cadavere del Re arrivato a buon porto, fu ritrovato conservatissimo„ (Gazzetta Universale di Firenze). Poco dopo Maria Luisa accompagnò la famiglia nell'esilio di Valençay. Il Talleyrand che aveva offerto nel 1801 alla regina d'Etruria una magnifica festa nella sua dimora di Neuilly, le offerse ora una prigione nel suo castello di Valençay. Nei Souvenirs di Madame Cavaignac, che incontrò per caso il triste convoglio, trovo un quadro poco lieto di questo miserie reali: “Fu appunto a Saint-Jean de Maurienne, credo, che trovai [332] la famiglia reale di Spagna, mentre recavasi non so dove. Io non ebbi cavalli: tutti erano ritenuti per essa. C'erano il re, la regina, gl'infanti, la regina d'Etruria, suo figlio, il principe della Pace. Tutte figure oltremodo strane e grottesche. Se non avessi visto i corrieri con la livrea dell'Imperatore, avrei preso tutte quelle carrozzate per altrettanti ciarlatani ambulanti, venditori d'orvietano o giocolieri. Non ho mai visto nulla di simile: eran divisi gli uomini dalle donne, comprese le tre Maestà. Mi meravigliai di veder la giovane regina quasi brutta quanto la madre.„ — Uscita da Valençay, Maria Luisa dimorò alcun tempo a Nizza; poi fu mandata a Roma e chiusa nel convento di San Domenico e Sisto, donde il Murat la trasse fuori nel 1814. — Inviata a Lucca dal Congresso di Vienna, vi morì nel 1824. L'infante Carlo Luigi ricuperò i dominii ereditari di Parma nel 1847; abdicò nel 1849 in favore di suo figlio Carlo III assassinato il 27 marzo 1854.

Così disparve, dopo sei anni d'esistenza, il regno d'Etruria fondato per un capriccio del Bonaparte. Come tante altre, l'effimera dinastia spagnola passò fra le pietre forti dei vostri palazzi fiorentini, senza radicarsi nei cuori. Data in balìa a cotesti passeggeri padroni, prima dalla volontà di Napoleone e poi dai calcoli della Santa [333] Alleanza, l'Italia li guardava alternarsi e passare: essa si raccoglieva e preparava la propria indipendenza. Di quell'Italia silenziosa, concentrata nell'attesa de' propri destini, un Michelet avrebbe voluto scorgere l'imagine simbolica nel David di Donatello: quel David di marmo che ammiravo ieri al Bargello, quel giovane erede presuntivo, così altero e disdegnoso, la cui bocca fiorisce in un misterioso sorriso, mentre calpesta la testa di Golia. Eppure è Golia che ha rivelato a cotesto giovane la sua forza e i suoi destini: non sarà re senz'aver lottato contro il gigante. L'invasione rivoluzionaria, da principio acclamata perchè abbatteva i vostri secolari tiranni, fu alla sua volta opprimente e sanguinosa: la dominazione napoleonica fu conculcatrice, abusiva, perchè la fantasia arbitraria del Grande disconobbe il diritto dei popoli a governarsi liberamente. Ma cotesta ultima prova era necessaria per scuotere e staccare l'Italia dall'antico regime, per risvegliare il sentimento nazionale che doveva ben presto trovare la sua forma e tradurre in una realtà politica il vecchio sogno dell'Alighieri. Quindi non malediciamo a questi un po' crudeli preparatori dell'idea patriottica.

Tali sanguinosi conflitti di razze e d'ambizioni hanno avuto la loro utilità nella storia; ma avremmo fatto ben vano studio di essa, se non [334] ci avessimo imparato a risparmiare in avvenire tante lacrime e tanto sangue, a compiere più semplicemente e più umanamente le nostre opere d'incivilimento e di trasformazione. Converrebbe disperare della ragione e del progresso, se l'inevitabile concorrenza dei popoli non trovasse ormai più pacifiche forme: fra noi segnatamente, Italiani e Francesi, fra le due nazioni sorelle che si laceraron fra loro le tante volte, e che si aiutarono anche scambievolmente senza potere scindere il loro ideale. Possiamo almeno riconoscere in avvenire una sol forma di rivalità e di lotta; e cotesta io me l'auguro ardente, accanita: la lotta sui campi di battaglia dello spirito, dell'arte, della letteratura, la lotta dell'umanesimo dove noi svolgeremo a gara, in diverso modo, gli elementi comuni che hanno formato la nostra anima di latini.

Ho parlato un giorno, a proposito dei vostri scrittori, del rinascimento latino. Ho detto come fossimo rimasti colpiti in Francia dalla recrudescenza del movimento letterario italiano. Noi altri stranieri, siam forse meglio di voi disposti a misurare la crescente influenza di cotesto movimento, e la diffusione continua al difuori delle opere che i vostri poeti e romanzieri impongono all'attenzione dell'Europa. Vedo qui dinanzi a me un di quei romanzieri che hanno [335] trovato da noi tanta fortuna; e invito Gabriele d'Annunzio a darmi ragione con nuovi lavori. Ma non voglio insistere sopra un soggetto che saprebbe di adulazione in bocca d'un ospite vostro, e che è invece l'espressione d'un meditato convincimento. Dirò soltanto che auguro a' miei figliuoli di trovare negli scaffali della mia biblioteca ciò che ho trovato in quella di mio nonno e letto con passione all'età loro: alcune grandi opere italiane, di quelle che illuminano e consolano la vita. Quelli ch'io leggeva erano i poeti classici dei vostri antenati: Dante e Petrarca, l'Ariosto e il Tasso. Tocca a voi, miei cari colleghi italiani, di scrivere i bei libri che saranno un giorno letti dai nostri ragazzi francesi.

E, conchiudendo, ardisco dire — a costo di tirarmi addosso le folgori di quella terribile potenza ch'è la stampa, — mandateci molti libri e pochi giornali, almeno di quei giornali che non illuminano gli spiriti ma soltanto vi accendono le malvagie passioni. Da voi e da noi, coteste nocive effemeridi hanno spesso tradito i veri sentimenti dei cuori. Quando, in alcuna gazzetta di Francia, leggerete cose spiacevoli per l'Italia, quando noi in un foglio italiano troviamo cose spiacevoli per la Francia, ricordiamoci entrambi il savio consiglio della Madonna degli Ufizi; prima di formarci un'opinione, mettiamo in pratica il [336] motto preservatore di possibili errori, che la mano della Giustizia ci addita a piè di quel quadro: Odi l'altra parte! E così giudicheremo meglio, senza malintesi, senza odio, come convien giudicare di tutte le cose tra Italiani e Francesi, fraternamente.

NOTA:

1. Lettres de Rome, 1799.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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